Le donne futuriste dandy

*photo Vitaldix performance

L'arte di vivere l'arte:
Il coraggio delle donne dandy


Detto in breve: nell'euforia affabulatoria di primo Novecento, gli uomini teorizzavano, le donne realizzavano. Fu una donna, Valentine de Saint-Point, a concretizzare in gesti, abiti, vita vissuta, i dettami del Futurismo: indossava occhiali bizzarri, divorziò «per colpa», nel 1918 osò scrivere il «Manifesto futurista della Lussuria». Sarà una donna, Dora Maar, a trasformare se stessa nell'opera d'arte che ossessionava Picasso: una signora in lacrime.
E fu una donna, la marchesa Luisa Casati, a incarnare in sé il distillato dell'epoca: il dandy al femminile. Il sogno di D'Annunzio e, in fondo, anche di Marinetti (nonostante la vena misogina degli scritti), una donna capace di uccidere i chiari di luna. Quei chiarori Luisa li fulminò con eleganza quando si trasferì a Venezia nel 1910, l'anno in cui Marinetti si scagliò contro la città lagunare definendola «passatista». La sua stessa vita fu un manifesto dandy, dalle amicizie leggere e scandalose all'assoluta libertà (non è un dettaglio) nelle disposizioni economiche. Era ricca e spendeva in lussi inutili, come l'amico Robert de Montesquiou, idolo di Proust.
Il dandismo femminile però prese spesso le distanze da quella componente decadente, umorale e umorosa segnata da D'Annunzio: la ballerina di origini russe Ida Rubinštejn (tra l'altro amata dal Vate) instaurò una disinvolta e persino ordinaria relazione con la pittrice Romaine Brooks, senza quell'ansia che contraddistingueva i legami omoerotici del de Montesquiou. Le donne erano più sicure di sé, precise nella rappresentazione dell'anticonformismo. Tamara de Lempicka reagì al naufragio del matrimonio e alla débâcle economica comprandosi tele e pennelli e inventandosi una tecnica nuova con la spatola.
Parigi. Le feste in maschera, gli animali improbabili al guinzaglio, le «danze fuori dal coro» (come la de Saint-Point aveva teorizzato nel suo saggio Metacoria) erano la quotidianità per quella fascia sociale alta, ricca, semi aristocratica, che condensava in una danza frenetica e instabile le secrezioni di un secolo burrascoso. Successivamente, in modo magistrale, Irène Némirovsky ci racconterà la componente russa di questo balletto europeo senza fine, nei ritratti delle emigré a Parigi: povere in canna e dai titoli decaduti ma per niente decise a rinunciare alle bizzarrie.
Anche se finirà praticamente in miseria, Luisa Casati non è mai stata una donna perduta, come nell'omonimo romanzo di Willa Cather. «Ride, scherza, parla d'arte», dirà Marinetti riferendosi alla marchesa. Quelle erano donne coltissime, poliglotte, capaci di conversare in tedesco con un pappagallo davanti a un assioma plastico di Boccioni e un ciclone metallico di Luigi Russolo. E facevano cose. L'amica della marchesa Marguerite Chapin, nota come Marguerite Caetani, fondò a Roma la rivista «Botteghe Oscure» che pubblicava poesie in cinque lingue. Il suo salotto era frequentato da un'altra celebre, meravigliosa dandy: Maria Anna d'Aragona Pignatelli Terranova Cortés, detta «Mananà», nobildonna che si divertiva a fare la scultrice e chiacchierava amabilmente con i levrieri e con il veneziano conte Cini.
In fondo, quanto sia stato femminile il primo Novecento lo ha capito bene uno dei suoi più grandi interpreti: Marcel Duchamp, che firmò alcune opere con lo pseudonimo di Rrose Selavy e fu con questo nome che volle intitolare il suo ritratto (che lo vede in abiti da donna) firmato da Man Ray. Luisa Casati, in fondo, non è stata un ready made vivente?