Il novo Majakowskij di Serena Vitale
DA LA STAMPA
Non c'è bisogno di avere speciali competenze sulla letteratura russa per apprezzare i libri di Serena Vitale, la qualità della sua scrittura, il suo talento critico-narrativo. Così, chi ha letto Il bottone di Puskin o L'imbroglio del turbante si sente sollecitato a leggere il suo ultimo saggio, intitolato Il defunto odiava i pettegolezzi . In esso si tratta di Vladimir Majakovskij, il titolo è desunto dal suo testamento, che Serena Vitale intende rispettare liberando appunto il poeta dai pettegolezzi, e non soltanto da quelli. Il dato di partenza è offerto dalla mattina del 14 aprile 1930 quando il poeta trentasettenne si uccide in una «kommunalka» (un alloggio in coabitazione) sparandosi al petto. Pregando il «compagno Governo» di prendersi cura, oltrechè dei familiari, delle due donne cui era tempestosamente legato, Lili Brik e Veronika Polonskaja.
Nasce di qui la serrata inchiesta dell'autrice per mettere un punto fermo sul «mistero» di quella morte. Tale fu a lungo considerato, per la mole di indiscrezioni, sospetti, occultamenti che gravarono su una personalità in tutti i sensi ingombrante. Un mistero favorito dall'aggrovigliata vita sentimentale del poeta ma anche dalle gelosie e rancori degli ambienti letterari, soprattutto dal ripudio ad opera della Nomenklatura. Il bardo della Rivoluzione era diventato ormai obsoleto: gli rinfacciavano i cedimenti alle emozioni private e alle accensioni liriche, non tolleravano in particolare la sua denuncia del filisteismo imperante nella società sovietica. Dove «l'imparnassito guerriero del Futurismo» appariva un corpo estraneo. Si insinuò che fosse affetto da sifilide, «la malattia del capitalismo», di avere sacrificato la Grande Causa a meschini amorucci, di essersi distratto dal celebrare le conquiste del Socialismo. (Confidava un altro scrittore refrattario: «Che cosa si può scrivere delle patate, degli orti? Che vogliono da noi? Che cosa si può scrivere dei kolchoz?...E sui kulaki non c'è niente da scrivere. Non ce ne sono più). Il suicidio - annota Serena Vitale - è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi». Il suo libro vale d'altronde, ben oltre l'assunto, per l'impressionante contesto storico, che presenta un sinistro corteo di scrittori perseguitati e fucilati.
Passarono cinque anni prima che Stalin, non potendo più reclutare alla causa nomi di prima grandezza, lo proclamasse «il migliore, il più dotato poeta della nostra epoca sovietica» e definisse un crimine l'offesa alla sua memoria. Serena utilizza nella sua indagine le testimonianze dei giornali, le confidenze di contemporanei amici e nemici, le carte emerse dagli archivi della polizia segreta. Sgombra il campo dalle troppe, abusive illazioni ma registra anche il clima oppressivo che circondò Majakovskij. Ravvisa, tra le cause della sua morte, il disinganno atroce per l'avvento dei Tiranni, la rabbia e lo sdegno contro chi aveva deturpato la «sua» Rivoluzione. Prova grande simpatia per il suo personaggio, che conserva nel corpo da gigante, nelle pose statuarie l'anima febbrile di un adolescente. Gli fa grazia di quelle che sembrano a noi poetiche intemperanze, sonore e virulente compromissioni con la propaganda, mettendo in luce il suo nativo, perenne ribellismo, il suo utopistico abbraccio al futuro. Scrive Majakovskij in una poesia rimasta incompiuta: «La notte ha imposto al cielo il tributo di stelle/in ore come questa ti alzi e parli/ai secoli, alla storia, al creato».
Serena procede con brevi capitoli che contengono nudi referti fattuali, catene di citazioni tratte da diari e verbali, lacerti di poemi. Interviene in prima persona soprattutto nei brani racchiusi tra parentesi che si aprono ad aggiustamenti, contestazioni, libere riflessioni su Majakovskij e il tempo in cui visse. Sembra quasi corrispondere, in una sorta di affettuosa complicità, al franto discorso poetico del suo autore. Il suo libro seduce e intriga anche per questa originale, composita struttura.
Nasce di qui la serrata inchiesta dell'autrice per mettere un punto fermo sul «mistero» di quella morte. Tale fu a lungo considerato, per la mole di indiscrezioni, sospetti, occultamenti che gravarono su una personalità in tutti i sensi ingombrante. Un mistero favorito dall'aggrovigliata vita sentimentale del poeta ma anche dalle gelosie e rancori degli ambienti letterari, soprattutto dal ripudio ad opera della Nomenklatura. Il bardo della Rivoluzione era diventato ormai obsoleto: gli rinfacciavano i cedimenti alle emozioni private e alle accensioni liriche, non tolleravano in particolare la sua denuncia del filisteismo imperante nella società sovietica. Dove «l'imparnassito guerriero del Futurismo» appariva un corpo estraneo. Si insinuò che fosse affetto da sifilide, «la malattia del capitalismo», di avere sacrificato la Grande Causa a meschini amorucci, di essersi distratto dal celebrare le conquiste del Socialismo. (Confidava un altro scrittore refrattario: «Che cosa si può scrivere delle patate, degli orti? Che vogliono da noi? Che cosa si può scrivere dei kolchoz?...E sui kulaki non c'è niente da scrivere. Non ce ne sono più). Il suicidio - annota Serena Vitale - è inammissibile lì dove solo lo Stato ha licenza di eliminare i propri sudditi». Il suo libro vale d'altronde, ben oltre l'assunto, per l'impressionante contesto storico, che presenta un sinistro corteo di scrittori perseguitati e fucilati.
Passarono cinque anni prima che Stalin, non potendo più reclutare alla causa nomi di prima grandezza, lo proclamasse «il migliore, il più dotato poeta della nostra epoca sovietica» e definisse un crimine l'offesa alla sua memoria. Serena utilizza nella sua indagine le testimonianze dei giornali, le confidenze di contemporanei amici e nemici, le carte emerse dagli archivi della polizia segreta. Sgombra il campo dalle troppe, abusive illazioni ma registra anche il clima oppressivo che circondò Majakovskij. Ravvisa, tra le cause della sua morte, il disinganno atroce per l'avvento dei Tiranni, la rabbia e lo sdegno contro chi aveva deturpato la «sua» Rivoluzione. Prova grande simpatia per il suo personaggio, che conserva nel corpo da gigante, nelle pose statuarie l'anima febbrile di un adolescente. Gli fa grazia di quelle che sembrano a noi poetiche intemperanze, sonore e virulente compromissioni con la propaganda, mettendo in luce il suo nativo, perenne ribellismo, il suo utopistico abbraccio al futuro. Scrive Majakovskij in una poesia rimasta incompiuta: «La notte ha imposto al cielo il tributo di stelle/in ore come questa ti alzi e parli/ai secoli, alla storia, al creato».
Serena procede con brevi capitoli che contengono nudi referti fattuali, catene di citazioni tratte da diari e verbali, lacerti di poemi. Interviene in prima persona soprattutto nei brani racchiusi tra parentesi che si aprono ad aggiustamenti, contestazioni, libere riflessioni su Majakovskij e il tempo in cui visse. Sembra quasi corrispondere, in una sorta di affettuosa complicità, al franto discorso poetico del suo autore. Il suo libro seduce e intriga anche per questa originale, composita struttura.