Angelo Giubileo: Il cerchio dell'essere



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Da: Angelo Giubileo <angelogiubileo6@gmail.com>


C'è un unico filo conduttore che lega il pensiero di tutta l'arte o scienza della filosofia, da Parmenide a Heidegger, ed è la certezza secondo l'uomo, espressa mediante le parole del poeta Paul Valery, di "ne rien comprendre à notre sort". E quindi quanto a ciò che comunemente si dice la "verità", assolutamente nulla da dire.
Questo assunto o modus - nella direzione o significato che dalla più remota antichità introduce all'uso del termine e attributo <divino> - si è scontrato e si scontra tuttavia con una generale e quindi condivisa interpretazione - pur attraverso specifiche e diverse forme - del pensiero sia di Parmenide che di Heidegger assolutamente falsa, perché in sé e per sé si tratta d'interpretazioni tutte incoerenti e contraddittorie.
La ratio unificante di tale impostazione, teorica (!),  deriva dalla volontà errata ed erronea di attribuire al pensiero parmenideo dell'inizio e heideggeriano della fine la valenza propria di una "teoria" o "dottrina" così fatta. E invece "il segreto" - perlopiù volutamente ancora ignorato e di cui parla Aristotele nella Metafisica, dimora essenzialmente nel fatto che il pensiero di entrambi non dice alcun-ché perché, nel totale rispetto della verità dell'"essere che è", non può dire alcun-ché. 
E quindi ciò, naturalmente e logicamente, non significa che entrambi siano stati o siano da ritenersi "nichilisti". È esattamente il contrario. Infatti, non dire cosa l'essere sia non significa affatto negare che l'essere sia, dato che: "l'essere è e non è possibile che non sia, il non essere non è e non è possibile che sia".
In definitiva, occorre che all'"è" di entrambi non sia dato alcun valore di predicato, né nominale né verbale. 
Prova di quanto ora detto ne è che - nonostante lo stesso Giorgio de Santillana abbia compiuto passi avanti notevolissimi nella comprensione del dettato di Parmenide che è il dettato dell'essere di Heidegger - lo storico della scienza scrive egli stesso, in premessa al suo saggio su Parmenide, che: "L'interpretazione corrente di Parmenide sembra aver superato questi problemi. Portata avanti sulla scia del dialogo platonico e armata del raffinato apparato della filologia esatta, essa pone tutto l'accento sulla copula verbale è..." (1, pag. 84). E di conseguenza parlare di ciò che egli stesso, impropriamente, caratterizza come una "novità" introdotta dall'Eleate nella formazione e conseguenziale sviluppo del Logos, e cioè "il concetto di puro spazio geometrico" (1, pag. 104). Per poi, in fine, sempre egli stesso concludere: "Gli uomini, presi nel fluire del tempo, essi stessi partecipi dei fenomeni, non possono collocare la loro vita nella Verità senza tempo che sta al di là della loro portata. Debbono far fronte agli eventi e <dar loro un nome>: è un solenne atto legislativo simile alla fondazione di una città. Tutta la posizione teologica di Parmenide suggerisce implicitamente che gli dei della città sono anch'essi relativi, ma devono essere considerati dei validi" (1, pag. 124,s.).
Ma questo chi lo dice? Senz'altro Giorgio de Santillana, ma non certo Parmenide. Dato che Parmenide - fedele testimone e quindi poeta della "verità di Dike" -, così come Heidegger - altrettanto fedele testimone e quindi poeta dell'"enigma dell'essere" -, coerentemente, entrambi non dicono perché - a differenza dei molti altri - accettano e condividono pienamente la loro e nostra comune natura, <umana>, tale che non dicono e non è possibile che dicano. 
Eccetto o salvo che dire il falso. 

(1) G. De Santillana, Fato antico e fato moderno, Adelphi 1993
Angelo Giubileo 


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Roberto Guerra