Angelo Giubileo, Essere e tempo
Essere e tempo
Allora di via resta soltanto una parola, che <è>
In una conferenza dal titolo "Les grandes doctrines cosmologiques" - riportata in "Science et Synthèse", Colloque Unesco, Paris 1965 -, i cui passi qui citati sono riportati nella traduzione di Romano Mastromattei (da G. de Santillana, Fato antico e fato moderno, Adelphi, 3a edizione 1993), Giorgio de Santillana chiarisce definitivamente che di tutte le cose è origine "l'Illimitato". Lo storico della scienza si riferisce al significato del termine ἄπειρον, significato piuttosto confuso con termini come "Infinito" (cfr. G. Semerano, L'infinito: un equivoco millenario, 2007) o "Inizio" o "Principio" (ἀρχή). Così che sia lo stesso de Santillana, in effetti, a generare una confusione interpretativa riguardo all'originario detto di Anassimandro, dato che per l'appunto scrive: "E si dice anche che questa sostanza è il Divino e che è l'Άρχή di tutte le cose – parola pregnante quant'altre mai, poiché significa primato, potere supremo, principio, cominciamento. E sta pure scritto: <L'Illimitato comprende il tutto e governa tutte le cose>. Il termine è κυβερνα, dirige, pilota".
La confusione è generata innanzitutto dal fatto che il testo del frammento, noto come il detto di Anassimandro, riportato da Simplicio, frammento 12 B 1, dice invece: έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι, καί τήν φδοράν είς ταύτα γίνεσθαι κατά τo χρεών· διδόναι γάρ αύτά δίκην καί τίσiν άλλήλοις τής άδικίας κατά τήν τού χρόνου τάξιν. E quindi: i termini di riferimento finora citati in merito all'interpretazione del testo, e in particolare il termine ἄπειρον, nella stesura del detto non sono affatto presenti.
Ora, ciò che qui interessa è la prima parte del detto - έξ ών δέ ή γένεσίς έστι τοίς οΰσι -, una cui traduzione che possiamo senz'altro definire letterale dice: "ciò da cui proviene la generazione delle cose che sono"; e, in particolare l'espressione <ciò da cui> quale rappresentazione linguistica del significato del termine che, per l'appunto, traduciamo con "l'Illimitato". Ciò da cui rappresenta pertanto anche <l'Intero> da cui nasce ogni cosa che è, e quindi, in definitiva: il Senza (ἄ) Limite (πειρον).
Ma, attenzione, questo Senza-Limite o Illimitato - che è per l'appunto Il Senza-Limite o L'Illimitato - essendo tale non può e non deve essere confuso con ciò che invece Giorgio de Santillana chiama "un vero principio fisico" e quindi una teoria o dottrina, in tal caso cosmologica, che è servita e serve per giustificare una (e non la) ragione sufficiente (ma non anche necessaria) perché la terra non cade. Ragione stessa a cui, alternativamente, gli uomini hanno dato e danno il nome di <Natura>, <Dio>, <Necessità>, <Caso> o cos'altro di simile. E non invece il nome dovuto: L'Illimitato.
L'Illimitato e un tempo, spazio o spazio-tempo - della <fisica> -, viceversa limitati, che ignoriamo e che non ci è dato conoscere e che, entrambi (Senza-Limite e Limite), senza saperlo, sono diventati e diventano per noi uomini causa (causante e causata) - ecco il principio teorico che noi umani abbiamo inventato per giustificare la ragione sufficiente di cui abbiamo detto - di tutte le cose. E con esse "i mondi innumerevoli", secondo Anassimandro (ciò che ci viene da Cicerone), rappresentati dagli "dei (che) hanno origine a vasti intervalli a Oriente e a Occidente".
Questo altresì più noto socratico sapere di non sapere rappresenta ciò che Martin Heidegger chiama anche "l'essenza dell'uomo", così che, in Holzwege, egli conclude: "C'è qualche salvezza? Essa c'è in primo luogo e soltanto se il pericolo è (ist). Il pericolo è se l'essere stesso va all'estremo e capovolge l'oblio che proviene dall'essere stesso. Ma se l'essere, nella sua stessa essenza, mantenesse l'essenza dell'uomo? E se l'essenza dell'uomo riposasse nel pensare la verità dell'essere? Allora il pensiero deve poetare l'enigma dell'essere. Esso porta l'aurora del pensato nella vicinanza di ciò che è da pensarsi" (Martin Heidegger, Sentieri interrotti, traduzione di Pietro Chiodi).
Per dirla alla maniera heideggereana, <è> pertanto l'essere che, nella sua stessa essenza, man-tiene l'essenza dell'uomo (e l'essenza di tutte le cose che sono), in un modo o altro che sia, quale che sia non importa. Dato che cosa sia questo <essere> non ci è dato sapere, né ci è dato sapere se <l'essere> medesimo - Il Medesimo di Platone - agisca sempre allo stesso modo o in modo rituale, e cioè secondo "il legame", ma si dovrebbe correttamente dire un legame (possibile) "fra l'armonia e gli astri, l'armonia e le unità di misura, i principi sovrani di esattezza che si chiamano maat in Egitto, rta o <rito> in India" (G. de Santillana, ibidem).
Legame che, nell'immaginario collettivo, è stato attribuito dall'Uomo-Architetto (Homo mensura rerum) alla figura del Dio analogico corrispondente, prima dell'avvento dell'Uomo-Fabbro e quindi della corrispondente immagine del Dio-creatore. A tale proposito, Giorgio de Santillana ci ripropone il più antico racconto dei Pellirosse Catlo'ltq del sud-est dell'isola di Vancouver. Come già illustrato in Il mulino di Amleto, il racconto mitico in questione rappresenta sinteticamente "il complesso mitologico che ruota intorno alla figura del Deus faber – Enki/Ea in Mesopotamia, Ptah in Egitto, Tvastr in India, Tane/Kane in Polinesia, Efesto, Wieland, Goibniu e così via, e che narra dei suoi aiutanti, delle sue grandi realizzazioni, del suo ruolo di custode e dell'acqua della vita, nonché della sua evoluzione da architetto a fabbro" (G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto - Introduzione all'edizione tedesca, Adelphi 2000).
Sarebbe dunque questa la sequenza più antica prodotta dal corrispondente razionalismo scientifico dell'epoca, ciò che Giorgio de Santillana definisce: Strana e meravigliosa partenza in seno a un mondo interamente vitalista. Un mondo che vive nell'illimitatezza dell'essere senza andare alla ricerca di una sua ragione, né sufficiente né necessaria. E tuttavia un mondo che, in seguito, s'incammina alla ricerca di una causa (almeno) sufficiente. Primo tra tutti, si fa per dire, sembra proprio sia stato una sorta di protopitagorico.
Qualcuno che, inoltre, in uno dei tempi e dei mondi innumerevoli abbia ragionato anche come Liside, il quale, dicono gli autori di Il mulino di Amleto, "fedele al giuramento pitagorico, rivolge un severo rimprovero al <traditore> Ipparco, reo di aver reso pubblico ciò che deve rimanere segreto". Perché questo <segreto>?
Perché, per volere di Pitagora, Liside avrebbe detto: "pietà vuole che si ricordino tuttavia i suoi divini precetti (pium tamen est divinorum illius praeceptorum meminisse), e non si comunichino i beni della filosofia a coloro che non furono rigenerati con la purificazione dell'animo (neque communicare philosophiae bona iis, qui neque animi purificationes somniaverunt) … Mescolano infatti i puri precetti della filosofia con costumi turbolenti e immondi. E' come se uno versasse in un pozzo pieno di fango acqua pura e limpida: agita il fango e perde l'acqua (nam caenum conturbat et aquam ammittit)" (Ibidem, traduzione di Rosen, 1978) … Ma una teoria o dottrina dei costumi, quale che sia, non può dire e rappresentare in alcun modo <ciò che è> ovvero l'essere senza-limite che è.
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