La questione romana nel concerto europeo alla metà del XIX secolo.
La questione romana intesa come il problema dell'annessione di Roma ad uno Stato italiano non poteva che rientrare nella generale sistemazione della Penisola e diventava idealmente proponibile, anche se concretamente ancora inattuale e inattuabile. Tutto dipendeva e sarebbe dipeso in seguito dal quadro degli equilibri europei dell'epoca. D'altra parte il momento decisivo dell'effettivo mutamento della politica europea e internazionale nei confronti dell'Italia sarebbe venuto solo da un accordo di pace di grande respiro. Si fa riferimento in proposito ai cosiddetti Preliminari di Villafranca che aprivano nuovi problemi invece di chiuderne: si trattava di un passo che mirava a promuovere la prima annessione territoriale a favore del Piemonte ai danni dell'Impero Austro-ungarico, comportando anche l'urgenza di riforme in seno allo Stato Pontificio. La Gran Bretagna intuì subito che l'improvvisa chiusura delle ostilità avrebbe provocato uno stato di cose fluido e indefinito, che le permetteva, senza essere stata partecipe del conflitto, di inserirsi con funzioni di mediazione nell'applicazione dei Patti. L'intervento diplomatico inglese non avveniva senza risultati pratici. Napoleone III, del resto, non intendeva sfidare l'eventuale contrarietà inglese e si proponeva di portare avanti una politica possibilmente conciliante con Londra, sostenendo che quanto più piccola sarebbe stata l'estensione territoriale dello Stato Pontificio, maggiore sarebbe stato il prestigio del suo sovrano. Sulla questione romana, infatti Londra approvava l'atteggiamento di Parigi, ma chiedeva che fosse accompagnato dall'immediata adesione imperiale. Tuttavia Napoleone III temporeggiava e al tempo stesso operava per sganciarsi dagli impegni presi con l'Austria a tutela dei ducati italiani e delle rivendicazioni pontificie: un comportamento ambiguo che finiva per incrinare i rapporti della Francia con il Vaticano. Lo stesso riavvicinamento franco-inglese era destinato ad incrinarsi però a causa del trapelare delle notizie relative al compenso territoriale promesso dal Piemonte alla Francia nel segreto accordo di Plombières: circostanza, quest'ultima, che suscitò in Inghilterra un coro di critiche, anche perché la mossa veniva interpretata come un segno evidente dell'espansionismo del Secondo Impero. Dal canto suo, Napoleone III era fermamente deciso ad ottenere Nizza e Savoia e a scanso di equivoci legava tatticamente a tale mira quella piemontese, giustificandole dal principio dell'autodeterminazione dei popoli. Principio che rappresentava per la Santa Sede una minaccia molto grave dal momento che si opponeva a quel diritto divino su cui si basavano le ragioni legittimiste scaturite dal Congresso di Vienna. Il Papato preferiva rischiare che trattare: un modo per non derogare alle proprie posizioni di principio. La stesso governo inglese escogitò considerazioni di circostanza per giustificare la cessione di Nizza e Savoia alla Francia (la cessione "avrebbe dovuto toccare molto più da vicino le potenze territoriali europee piuttosto che l'Inghilterra" si diceva). L'ipotesi di un'aggressione alla neutralità pontificia allarmava intanto le diplomazie europee che non sopportava la disinvolta inosservanza piemontese di ogni regola. Si trattava solo di atteggiamenti sterili e formali, anche quando Napoleone III, su richiesta del suo Ministro degli Esteri, ritirò l'ambasciatore francese da Torino. Il quadro italiano era ormai profondamente cambiato. La stessa Gran Bretagna, dopo una certa riluttanza, cambiò idea nella prospettiva di sottrarre il Piemonte dall'influenza francese. Cavour, temendo un peggioramento della situazione e mutamenti di politica da parte di Parigi, tentò intese dirette con il Papa per porre le condizioni di Torino sul tappeto della trattativa. Il potere temporale del Papa in realtà costituiva il maggior ostacolo sulla via di Roma e le stesse potenze cattoliche lo sostenevano sempre più debolmente.
Casalino Pierluigi, 2.07.2014