Angelo Giubileo: EX MACHINA

 

Ex machina

Giorgio de Santillana e Herta von Dechend avevano anche pensato d'intitolare il loro più noto lavoro "Arte della fuga", ma in fine scelsero in originale il titolo Hamlet's Mill. An essay on myth and the frame of time. Tradotto in italiano: Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo.

La ricerca che qui espongo, senz'altro in maniera assai parziale, e quindi diciamo che essa rappresenta piuttosto una traccia, alla maniera di Heidegger, inizia proprio da ciò che può definirsi la "struttura del tempo", che Platone definisce "macchina" e, in dettaglio, "immagine mobile dell'eternità".

A differenza di Esiodo, Platone aveva in spregio lo spazio, che egli stesso chiamava infatti "ricettacolo" - una sorta di contenitore lo potremmo dire noi volgarmente, un "campo" lo avrebbe poi detto Einstein, alla stessa stregua però direi del "campo del vasaio" di cui è traccia in Zaccaria (11, 12-13), ma che Matteo sembra ricondurre erroneamente a Geremia (27, 9-10), in forma di mito acquistato dapprima per volere di Dio in cambio di trenta denari e poi mediante gli stessi simbolici trenta denari, ricevuti e restituiti da Giuda, acquistato sempre in forma di mito dai giudici del sinedrio -: "un immenso spazio vuoto" (Simposio, 178b), a noi meglio noto come Kaos (greco) o Chaos (latino).

In un suo brano poco noto e quindi poco approfondito, Aristotele chiarisce invece in maniera definitiva che: "I nostri progenitori delle più remote età (…) hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito (…), secondo cui questi corpi sono dei e il divino racchiude l'intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dei – lo si dovrebbe ritenere un'enunciazione ispirata e riflettere che, mentre probabilmente ciascun'arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie (…) dell'antico tesoro" (Metafisica 1074b).

E dunque: cosa significa esattamente il fatto che essi pensavano che le prime sostanze fossero dei? Non certo ciò che nell'attualità la maggior parte degli uomini penserebbe presumibilmente che sia. Gli antichi greci chiamavano le cose-che-accadono "enti" (onta) e tali per cui non è mai possibile darne alcuna definizione, che cioè sia veramente certa; in modo che tutte le cose, dalle più infinitesimali alle più eccelse o supreme, non siano e rappresentino altro che un mistero, uno spazio ignoto, e in definitiva una sorta di demoni o semidei o, come per l'appunto li denomina Aristotele, semplicemente: dei.

Nella più antica cultura vedica, il passaggio riportato da Aristotele si coglie meglio attraverso la corrispondente tradizione; in quanto la narrazione dell'essere-tutto-intero, alla maniera di Parmenide, è rappresentata in forma di mito mediante l'avverarsi o il mostrarsi o anche il manifestarsi di due "creazioni" - termine di comodo riconducibile tuttavia a una traduzione assolutamente errata, in quanto il termine esatto è invece "generazioni" -, e quindi due generazioni di dei, come a esempio gli Asura e i Deva in India e non allo stesso modo invece, così come distinta dalla generazione olimpia, la generazione dei titani o semi-dei in Grecia. Così come la generazione degli angeli nei racconti dell'antico territorio d'Israele.

Così che, sia chiaro in via definitiva, entrambe le stirpi e così tutte-le-cose-che-accadono nel tempo delle diverse generazioni derivano – come dice Anassimandro nel suo più famoso detto originario della filosofia – "da ciò da cui (per le cose è la generazione), sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo".

Ma, se anche qui si dovesse separare il primo punto dalle aggiunte successive in forma di mito, l'enunciazione ispirata è che ogni cosa accade secondo il "necessario" e pertanto, secondo l'ordine del tempo, ogni cosa accaduta, essa stessa accade e nuovamente accadrà.

Così che, neanche Platone avesse potuto disdegnare l'idea che "qualcosa" in qualche modo presiedesse all'ordine del tempo. Ed egli, infatti, parlando del tempo usa l'espressione "immagine mobile dell'eternità", anche se l'eternità esclude il moto.

Ed ecco allora che - non indugiando oltre nella ricerca di ciò-che-precede o meglio ciò-che-abbia preceduto, come a esempio il Kaos in Esiodo, ma anche su questo brevemente più avanti in qualche modo ritorneremo -, l'orizzonte della nostra ricerca si apre e si rivolge alla struttura del tempo, e cioè innanzitutto al nome (nomen omen in latino vuol dire de-stino-che-ti-appartiene, una cui traduzione appropriata potrebbe essere quella data da Emanuele Severino, e cioè lo stare dell'essere e l'essere dello stare medesimo) che esattamente sta piuttosto a indicare un movimento o moto. E, da questo significato essenziale, per generazione successiva del termine stesso, la "trasformazione delle cose", così come usato da Aristotele, ma anche, come si legge magistralmente e in maniera esplicita in de Santillana e von Dechend, "il sovrano del mondo (che) deve procurare le misure normative valide per la sua età".

E pertanto, ricapitolando brevemente, la nostra indagine può partire ora da questo primo punto, che rappresenta ed è esattamente un limite - a differenza dell'apeiron di Anassimandro che è detto appunto il senza (a)- limite (peiras) e da cui il termine, per l'appunto: a-peiron - e cioè la struttura del tempo e in definitiva il tempo stesso, considerato né più né meno che: una macchina. Il tempo è una macchina, e le cose che accadono in ogni tempo non sono altro che il processo di una macchina, l'atto continuo di ciò-che si genera e si dissolve secondo il necessario.

Franco Rendich nel suo L'origine delle lingue indoeuropee. Struttura e genesi della lingua madre del sanscrito, del greco e del latino scrive che nel più antico alfabeto sanscrito "la consonante K era il simbolo del moto curvilineo dei corpi celesti nello spazio e rappresentava l'energia creatrice dell'universo composta di acque (ka) e di luce (ka)".

L'Autore aggiunge anche, immediatamente: "energia che si irradiava nel cuore dell'uomo per amare, kam, e per essere felici, kaj". Ma, è ormai chiaro che, questo è ciò che accade in un secondo tempo ed è pertanto già indice di un'avvenuta trasformazione. A tale proposito, e a parziale esempio, diremo che il termine ka nella religione dell'antico Egitto sta a indicare la forza vitale di ciascun individuo che, semplificando, consente all'"anima" di trapassare lo spazio dell'esistenza terrena e trasmigrare nello spazio dell'"aldilà".

Ka è anche il nome di Prajapati, nei Brahmana colui che è dio e signore di tutte le cose. Così che, anche a tale proposito, Aristotele avrebbe potuto dire che si fosse trattato del resto di una tradizione aggiunto più tardi in forma mitica. E, al punto in cui siamo pervenuti, è superfluo soffermarci ma è forse opportuno ancora annotare che lo stesso termine kaos derivi in qualche misura dal termine ka.

Più interessante, invece, è seguire l'altro percorso di derivazione dei termini che attengono al moto e in particolare al moto curvilineo dei corpi celesti nello spazio, di cui ci ha detto Rendich, e di cui, vedremo subito, Giorgio de Santillana e Herta von Dechend riempiono moltissime pagine del proprio lavoro.

Si tratta principalmente del moto dell'asse terrestre o meglio il moto che avvolge, presiede e dirige l'intera struttura del mondo - come narra lo stesso Platone nel mito di Er - o meglio forse a dirsi l'"armatura" dell'essere (lo stesso "essere", che così chiama Parmenide[i]), immagine mobile dell'eternità, e in fine per gli stessi Autori: "la macchina cosmica" dell'essere. Infatti, brevemente: La macchina cosmica (mulino, trapano o zangola) produce periodi di tempo, effettua la "separazione del cielo e della terra", e così via.

E tuttavia, proseguendo immediatamente nella lettura del brano: A mano a mano che si diffonde in ambienti diversi, specialmente in quelli tropicali (dove non si conoscono il frumento, l'aratura, ecc.), il Mulino (o la zangola) non è più compreso come tale, e il ricordo si associa a uno strumento per spappolare il cibo … (DS-VD, Appendice 14). Atteso, dunque, che si tratta originariamente di un movimento prodotto da uno strumento il cui termine di paragone è assimilabile a quello nostro attuale di mulino o mola o macina.

Ma, prima di esplorare l'universo di storie e d'immagini descritte simultaneamente dai due Autori, ritorniamo ancora all'altro Autore nostro di riferimento, contemporaneo, a cui qui abbiamo inteso rivolgerci.

In relazione alla consonante m, Franco Rendich annota quanto segue: Tutto ciò che esiste al mondo ha un limite e una misura. Per rappresentarne la nozione gli indoeuropei scelsero il suono della consonante m e con essa nacquero i principali termini legati alla nozione di "limite", come "materia": "sostanza definita da un limite"; "misura": "determinazione dei limiti"; "madre": "colei che si occupa dei limiti dell'esistenza".

Ciò detto, ecco ora, in sintesi, una sequenza d'immagini e di storie disvelate, alla maniera ancora di Heidegger, dal racconto degli altri nostri due Autori.

-         la macina di Amlodi

-         il Grotti

-         il Sampo

-         il trapano da fuoco

-         il movimento rotatorio (comune alla ruota del vasaio) dei cieli e di ogni cosa o ente o anche corpo rigido su se stesso

-         il movimento rivoluzionario dei cieli e di ogni cosa o ente o anche corpo rigido intorno a un altro

-         il bastoncino di fuoco (per attrito)

-         il joy-stick

-         ecc.

In primo piano: la figura della macina o altrimenti detta mola. E, in base al giudizio degli Autori, a ritroso sulle tracce impresse dalla tradizione norrena e dalla figura di Amleto, su e giù attraverso la struttura e la macchina del tempo (in particolare, cfr. cap. 9).

In greco, macina o mola è detta mulos-ou che sta per mola, pietra da macina. In Platone è presente anche il termine mulias-ou che accostato al termine litos (pietra) sta per pietra da macina. In Tucidide, mulon-onos sta per mulino. Nell'uso trascorso, riscontriamo anche il termine mule-es, al femminile, che sta esso stesso per mola o macina. In latino, mola-ae.

Pertanto, evidente appare l'assonanza del termine in questione con il termine nostro attuale di "mulo" o "mula"; e, in effetti, una connessione realistica emerge dal fatto che il termine "mulino" sia stato inteso anche come luogo di pena per gli schiavi (Eur., Cycl. 240) considerati esseri inferiori, meri esecutori di ordini, assimilabili per molti aspetti agli stessi muli di cui i nostri nonni si sono serviti ancora fino a poco tempo fa.

Il termine macina è invece senz'altro assimilabile a quello di macchina, al punto che quasi s'identifica. Infatti, in latino macina è detta machina, ae e in Lucrezio (5, 96) il termine è adoperato per intendere proprio la struttura dell'universo: ruet moles et machina mundi e cioè "crollerà l'immenso edificio del mondo". Per inciso, sia detto anche che machina, ae è anche il palco su cui si vendevano gli schiavi (Q. Cic.), oltre che altri significati ancora.

Ma, se, come riteniamo, hanno ragione i nostri due Autori; concludiamo brevemente dicendo che a mano a mano che si diffonde in ambienti diversi, specialmente in quelli tropicali (dove non si conoscono il frumento, l'aratura, ecc.), il Mulino (o la zangola) (è termine che) non è più compreso come tale, e il ricordo si associa a uno strumento per spappolare il cibo. Così che, qui in particolare, sia stato piuttosto Lucrezio a tramandare la misura, il peso o il valore della cosa a cui originariamente è fatto riferimento mediante il termine usato: l'intero universo (e quindi le stesse cose o enti che ad esso appartengono secondo l'ordine del tempo) è (e sono) una macchina.

Alla nostra ricerca potrebbe forse anche bastare quanto finora detto, ma i nostri due Autori non sono dello stesso avviso e pertanto, nell'allora 1961, finiscono per condurci e mostrarci altri approdi. Il loro lavoro, infatti, si completa con le figure di Gilgames e di Prometeo, accomunate entrambe nella lettura del penultimo capitolo della storia e delle storie che tutt'insieme precedono il messaggio del più antico tesoro, di cui ci ha detto Aristotele, e che rappresenta ed è anche il titolo dell'ultimo capitolo.

Le due figure hanno una tradizione e un profilo assai comuni, ma si diffondono in "ambienti", che così ci piace dire, diversi. I greci antichi li avrebbero chiamati topoi, nell'attualità Heidegger li avrebbe ancora definiti dimore dell'essere.

A differenza di Gilgames, che ha provato vanamente ad andare oltre il limite "umano" e pertanto accetta come proprio il "limite" che il destino gli ha assegnato nel corso del tempo, Prometeo non rinnega e non rinnegherà mai la propria volontà di andare sempre oltre il limite, che ritiene viceversa solo apparente, che il destino gli ha assegnato nel corso del suo e proprio tempo, e quindi sempre in cerca di un destino, che, in specie nell'attualità, oltrepassi l'"umano".

Il nome Prometeo, semplificando un po' il percorso a ritroso, deriva secondo gli stessi Autori da quella grande famiglia di immagini verbali prodotte dalla radice manth-, math- (…).

E allora, ritornando ancora brevemente a Reidich, diciamo semplificando che:

-         mat sta per muovere il limite (m) da un punto all'altro (at);

-         man sta per la misura (m) dell'emergere vitale delle Acque (an/na)

Acque vitali che in forma di mito emergono insieme al tempo da quello spazio-vuoto, l'a-peiron o senza-limite di Anassimandro, Ka o kaos della tradizione o anche siffatto altro nome vogliate indicare per esso (?). Prima che il tempo fosse.

Reidich attesta altresì che, dal sanscrito originario al latino, la lettera a si trasforma in e/o, e quindi la radice sanscrita man condurrà, attraverso la generazione successiva dei termini, alla radice latina men/mon. Attraverso la quale, suggerirei in particolare d'indagare i termini mens, mentis e monstrum, i (da monstro, forma verbale, che sta per mostrare, far conoscere, insegnare, ecc. ma che, in quanto sostantivo, sta sia per prodigio, miracolo, portento che per mostro, essere mostruoso). Monstrum è anche detto di cosa meravigliosa, richiamo a quella stessa meraviglia a cui gli antichi greci facevano risalire ogni possibile discorso, "umano", "postumano" o "altro" che sia.

                                                                                                                      Angelo Giubileo



[i] Cfr. A. Giubileo, L'isolamento dell'essere in Parmenide, 2019.



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Roberto Guerra