Angelo Giubileo: LA DIMORA UMANA DELL'ESSERE



Da: Angelo Giubileo  
 
La dimora umana dell'essere

Anche Martin Heidegger, dopo aver approfondito la lettura di Parmenide, riconobbe quello che era stato anche il proprio errore; e così, nel corso della sua vita, prese nuova dimora nel bosco di Todtnauberg, nel silenzio disvelato della verità. 

 

In Il Politico Platone dice che, in quanto uomini, abbiamo a che fare con due ordini diversi: l'uno <divino> e <naturale> fondato sulla <verità> e cioè - è meglio precisarlo sin da subito - l'incertezza e la conseguente sospensione del giudizio (epochè); l'altro <politico> e <religioso>, fondato sulla necessità di una scelta, in cui Parmenide evidenzia come "ciò che sembra agli uomini è privo di vera certezza" (Fr. 1, v. 29). Così che la verità della politica e della religione rappresenta piuttosto un'adaequatio, una misura pressapochista, un modo di accostare la verità che è solo parziale. Un modo che attiene a ciò che è "parte" e non "intero", e pertanto, correttamente, Plutarco scrive che: "non bisogna predicare qualcosa dell'intero, dato che si entra in contatto solo le parti" (adversus Colotem 1109 E). E allora, di verità non resta che la stessa <epoché>, di cui si è detto, che Parmenide definisce parimenti "rotonda", e quindi intera, e provvista di "sapere incrollabile" (Ibidem, v. 28). Ma, su questo occorre puntualizzare: sapere incrollabile, ma a misura dell'umano. Di ciò che comunemente noi stessi uomini chiamiamo <umano>.

 

Nell'ordine naturale, e quanto alla ricerca della verità, la condizione in generale dell'uomo (cfr. H. Arendt, Vita activa) costituisce un <limite>; al quale invece si sottrae l'uomo politico-religioso, elevando se stesso al rango di <dio> - o figlio di dio - e quindi messaggero di quella verità che egli stesso <è>. Ma, correttamente, dovremmo piuttosto dire che: non <è> ma rappresenta. Così che la questione sia ontologica che epistemologica verte interamente sul significato da attribuire al termine che: <è>.

 

In Essere e tempo, Martin Heidegger scrive che con il termine greco "aletheia", tradotto originariamente da lui stesso con il significato di "verità" (nel senso di <vera certezza>), deve piuttosto intendersi "la non-ascosità (Unverborgenheit) pensata come radura (Lichtung) dove si dispiega la presenza (Anwesenheit)", che: "è dunque qualcosa di meno della verità … O è qualcosa di più, poiché soltanto essa concede la verità come adaequatio e certitudo" (ed. Guida 1998). Ma, si tratta di un'interpretazione dell'essere (come "disvelamento") - che necessariamente <è> - che Heidegger, nel corso della sua vita e in fine, non condividerà affatto. Nel semestre invernale del 1943, egli tenne a Friburgo un corso, inizialmente programmato sulla filosofia presocratica, incentrato esclusivamente sul pensiero di Parmenide, che evidentemente andava riscoprendo.

 

Così che, ritirandosi e rifugiandosi nel bosco di Todtnauberg, sarebbe già di per sé intuitivo credere (superstitio) e pensare (opinio) che Heidegger abbia infine condiviso - come fattualmente sembra -  la verità (di Parmenide) come impossibilità e quindi fatto anche lui da testimone alla verità dell'ordine naturale (o divino, che, nell'accezione degli antichi, sta per mistero piuttosto che nascondimento) sull'ordine politico-religioso, inteso, mediante il suo stesso linguaggio di prima, non come "qualcosa di meno della verità", ma "<è> dunque qualcosa di meno della verità".

Soltanto così, si spiega altresì il fatto assai tragico dell'errore precedente – da egli mai ammesso come colpa - di aver sostenuto e avvalorato, e dunque nel corso della sua vita passata, una forma di opinione e superstizione politico-religiosa quale quella nazista. La sopravvenuta e diversa interpretazione dell'essere-necessario-che-è-stato non consente una tale ammissione, in quanto tutto ciò che <è>, alla maniera dell'Eleate, è e non può non essere.

 

Qual è dunque il sapere incrollabile della verità rotonda, quale il significato esatto di una frase e di una parola, in base alla quale Egli stesso conclude: Allora di via resta soltanto una parola, che <è> (Fr. 7/8, vv. 5-6)?

 

Agli esiti del parricidio cosiddetto, mancato una volta per sempre, i traditori non seppero trarne il vero insegnamento e tali infatti si mostrano - veri e propri traditori - agli occhi degli interpreti moderni che, come sempre accaduto e accade tuttora, assumono tuttavia il termine "traditore" nel suo diverso significato da quello originario ed esclusivo inerente al trasferimento di una cosa che si possiede. Come se il successore sia necessariamente destinato a diventare il traditore e cioè colui che necessariamente subentra e quindi riveste il ruolo e la funzione di detronizzare, uccidere o sacrificare il proprio padre. Secondo il Mito, pare che per primo sia toccato in sorte, e quindi secondo la più antica legge del Fato, a Saturno; vittima del figlio Giove. E così via, attraverso una serie ininterrotta di continui tradimenti, dall'inizio alla fine dei tempi.

 

Considerare Parmenide "filosofo dell'essere" e contrapporlo così a Eraclito considerato viceversa "filosofo del divenire", significa che molti <Moderni> non abbiano, ma io credo non vogliano che il messaggio dell'Eleate - e degli Antichi tutti, e quindi dei Presocratici e quanti ancora dopo di loro ne trasmisero l'esatto significato - sia compreso quale "rotonda verità e sapere incrollabile".

 

E allora: Parmenide descrive l'essere alla stregua di una "via". La via che percorriamo a ogni istante della nostra vita, ignorandone la dimora (heideggeriana) sia di provenienza, che attuale che futura. Una dimora che essenzialmente <è>. Priva di un predicato, quale che sia. Come ogni singola fotografia che compone la scena di un film. Priva perfino del predicato dell'esistenza, per cui la saggezza di Amleto - al contrario della stupidità di Cartesio - gli suggerirà di non-dire, non-decidere, non-scegliere tra l'essere e il non essere. Se ne avesse avuto l'opportunità, la presunta mente mathematica di Cartesio avrebbe sbattuto contro lo scoglio incrollabile dei teoremi dell'incompletezza e dell'indecidibilità godeliani e, precipitata dal maelstrom sott'acqua, oggi dovrebbe essere dichiarata irrimediabilmente morta e sepolta per sempre.

 

Ma i traditori sono sempre in agguato, pronti a resuscitare ogni genere di morti. Così che un viaggio, quale che sia, possa sembrare sempre diverso, ma in un'accezione di significato che tale non è o non dovrebbe essere. Ma: ciò che sembra agli uomini è privo di vera certezza.

 

A tale proposito, Giorgio de Santillana ha detto e avrebbe moltissimo da dirci circa i viaggi degli dei e le relative stazioni celesti: "Le 'avventure' epiche hanno luogo tutte quante nel cielo, come si può dedurre dal fatto che il determinante cuneiforme per <dio> è costituito da una stella; ed è appunto con <dei> che abbiamo continuamente a che fare. Questa circostanza è ben nota a tutti gli assiriologi, ma viene sempre pervicacemente rimossa" (G. de Santillana-H. von Dechend, Il mulino di Amleto). Ma, a differenza dei Moderni, gli Antichi ne comprendevano esattamente il significato. Impossibile da rendere attraverso il linguaggio di noi Moderni, ma viceversa trasmissibile attraverso il linguaggio del Mito.

 

Ma, ancora, sembra chiedersi retoricamente lo stesso Autore (prima, come immediatamente vedremo, di dare altrove una risposta definitiva): "Ciò non significa assolutamente che quaggiù non si faccia nulla. La geografia è sin dall'inizio derivata dall'uranografia, e a ciascun luogo <sopra> ne corrisponde uno <sotto>" (ibidem). Ma, allora, come distinguerli? Come carpire la verità sia dell'uno che dell'altro? In fondo, è fin troppo evidente: dipende dal punto di vista, dal punto di vista dell'osservatore - e per primo forse quel Gilgamesh, il cui nome sta per "colui che vide tutto" -  stabilire quale sia il <sopra> e quale il <sotto>; o viceversa. E allora, se dipende - ma occorre aggiungere: indifferentemente o simmetricamente - dal lato opposto da cui si guarda, come si esce da questo labirinto (dell'umano)?

 

"Suggerisco pertanto di trattare ovunque la parola <Essere> come termine indefinito, sostituendola in tutto il testo con x. E' certo un buon metodo postulare la nostra ignoranza di una parola folgorante, familiare e tuttavia non compresa, trattandola formalmente come incognita e cercando di definirla dal contesto. Ora, se teniamo la mente <monda di pregiudizi>, come suggeriva Bacone, e cerchiamo di definire x unicamente dal contesto, troveremo che esiste un altro concetto, e solo quello, che può sostituirsi a x senza generare assurdità o contraddizioni, e questo concetto è il puro spazio geometrico stesso, per il quale i Greci non possedevano ancora un termine tecnico (è noto che i primi Elementi erano essenzialmente bidimensionali)" (G. de Santillana, Fato antico e fato moderno). E pertanto, anche relativamente allo spazio di noi Moderni, è evidente che a ognuno di noi umano, ciascuno per se stesso, non resta altro che una propria via, una propria verità, una propria vita (e vorrei che fosse chiaro: vita o morte che sia). Nient'altro.


Angelo Giubileo