Stranieri e assurdi oltre il bosco con Pirandello, Camus e Zambrano di Pierfranco Bruni

di Pierfranco Bruni


Stranieri e assurdi oltre il bosco con Pirandello, Camus e Zambrano.

L'inquietante ricerca della pietà

 


 

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Lo straniero e l'assurdo.  La caduta con il riso e la risata nella confusione. La solitudine e l'angosciosa incertezza. Sono percorsi di anima. Viaggia di esistenza. Erranze nei cuori e nel tempo che illumina e chiede di capire il mistero. Come è possibile capire e comprendere il mistero e il senso del mistero? Il mistero è un sentiero ma è anche un linguaggio. Le letterature sono linguaggi di parole che inventano (creano) immagini o un immaginario che si trova sempre su uno scenico palco la cui ribalta è data dal personaggio che anima. Il personaggio che anima la scena. Che anima…

L'anima è il sentiero degli orizzonti. Gli orizzonti che si vivono in una visione che ci sentire centomila e nessuno ma anche l'uno come il Mattia Pascal che ombreggia una richiesta di pietà. Ombreggiare la pietà è viversi come pagliacci alla ricerca di una filosofia. Soltanto così è possibile salvare la bellezza. Quella bellezza che è "L'aspirazione alla pienezza e alla realizzazione interiore" la quale "si trova nell'intimo di ogni essere umano" (Tzvetan Todorov). Ma questa Aspirazione è la profezia che passa attraverso il mistero che vive del canto della pietà.

Siamo tutti assurdi. Pirandelliani e poi camusi ani nella cadenza della caduta. Ma siamo come quel pagliaccio che ha raccontato Maria Zambrano: "Il pagliaccio mima da sempre e con successo infallibile la situazione peculiare di chi pensa e sembra stare in un altro mondo, muoversi in un altro spazio, libero e vuoto". Sulla scena e sulla vita del palcoscenico siamo tutti dei Mattia Pascal o siamo Nessuno. Un ulissismo che viaggia con un viaggio accanto e un viaggio dentro mentre il riso ci esplode negli occhi. Ma Pirandello, in Il fu Mattia Pascal,  ha raccontato noi: "Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello... – Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!

- Oh oh oh, che c'entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita…
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava…
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse…Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. […] Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza di d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri. Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci, ormai, le nostre!"
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Ci sono, comunque, sempre degli esclusi. Gli esclusi sono gli estranei. Gli estranei non sono gli assenti. Sono i presenti. Presenti ed esclusi. Pirandello è l'interprete di un colloqui mai interrotto tra l'assurdo e il riso. Un colloqui che va sempre nel segna di una ricercata "pietà". Così è! Come in Uno, nessuno e centomila: "Non conclude. (…) Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. (…) Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare… La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane (…) Pensare alla morte, pregare. C'è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l'ho più questo bisogno; perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori."

L'esistenzialismo estetico costituisce la chiave di lettura in un viaggiare oltre la forma ma tra i linguaggi. Leopardi e Pirandello, entrambi ben conosciuti da Maria Zambrano, sono porti lungo l'esistenzialismo e lungo i parametri estetici. Di questi parametri si serve il personaggio che vive la caduta e l'assurdo. In un intreccio istrionico il gioco si rafforza e diventa maschera. Ma la maschera resta sempre la confessione dell'uomo (straordinario il saggio di Maria Zambrano su "Il pagliaccio e la filosofia").

Alla fine della vita, in quella deriva in cui mistero e pietà cercano di incontrarsi ("la pietà è saper trattare col mistero", Maria Zambrano) affiora costantemente il non volto del Nessuno o dell'Uno: "Dunque per gli altri sono quell'estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi riconosco: quell'uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell'estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no. E mi fissai d'allora in poi in questo proposito disperato: d'andare inseguendo quell'estraneo ch' era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti ad uno specchio perchè subito diventava me quale io mi conoscevo; quell'uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere ed io no. Lo volevo vedere e conoscere anch'io così come gli altri lo vedevano e conoscevano.  Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d'essere io per me. Ma presto l'atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch'io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch'era uno anch'esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà" (Luigi Pirandello Uno, nessuno e centomila).

Tutto si impiglia in quel "vedersi vivere" che è la determinazione dell'assurdo nella solitudine. Qui l'incontro tra Camus e Pirandello diventa uno snodo. Camus non poteva non conoscere Pirandello. Il "ritrovarsi improvvisamente" di Pirandello, nella inquietante vita diventa una richiesta d'amore. In fondo Camus nel suo "assurdo" in rivolta non fa altro che una richiesta d'amore. Così: "L'assurdo nasce dal confronto tra la domanda dell'uomo e l'irragionevole silenzio del mondo…L'assurdo regna in questo mondo, e solo l'amore ci salva". Perché vivere inquietante è vivere già oltre, anzi fuori (direbbe Santa Teresa). Occorre sempre restare in se stessi per recepire il mistero e la pietà.

Una forte e calma osservazione di Pirandello: "Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d'infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere" sembra essere ripresa da Camus quando afferma: "L'assurdo è la lucida ragione che constata i suoi limiti…", oppure quando scrive: "Dal momento in cui viene riconosciuto, l'assurdo diventa la più straziante di tutte le passioni…", e ancora: "Accettare l'assurdità di tutto ciò che ci circonda è un passo, un esperienza necessaria: non deve diventare un vicolo cieco. Esso suscita una rivolta che può diventare feconda".

Si incontrano i due, Pirandello e Camus. Ma è Camus che penetra attentamente gli scritti di Pirandello nel dire: "Io traggo dall'assurdo tre conseguenze: la mia rivolta, la mia libertà e la mia passione. Con la mera attività dell'essere cosciente trasformo in una regola di vita quello che era un invito alla morte, e rifiuto il suicidio".come per dire che "La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un'incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l'intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi" (Uno, nessuno e centomila).

Sono punti fissi per Pirandello. Come lo sono, appunto, il mistero e la pietà. Ancora Maria Zambrano indica la strada quando afferma: "Il mistero non si trova fuori; sta dentro ognuno di noi, ci circonda e ci avvolge. In lui viviamo e ci muoviamo,. La guida per non perderci in lui è la Pietà". Infatti Pirandello ha sempre chiesto, attraverso i suoi personaggi e la sua lingua, di non perdersi nel mistero ed ha dato costantemente voce alla "Pietà". Sono state sempre dei porti sicuri in Pirandello: l'assurdo, il mistero, la maschera, la pietà. Porti che si sono trasformati in linguaggio.

Tanto da far dire a Corrado Alvaro che "La sua lingua, al principio ripicchiata e di vocabolario, diviene nel meglio della sua opera un modo d'esprimersi naturale, come si esprimono gli elementi nella luce; le sue manie a un certo punto investono l'uomo e divengono rimpianti di angeli decaduti, incubi, segni del destino. Tanto è vero che non c'è grande poeta senza idee fisse". Ma qual è il segno indivisibile in un Pirandello che chiede alla pietà di farsi luce, voce, parola? Forse è ciò che afferma Pietro Mignosi? Il quale coraggiosamente ebbe a scrivere: "L'opera di Pirandello si riannoda storicamente a quella rinascita della letteratura religiosa, che sotto forme più varie ed eterodosse cela il grande mistero dell'anima naturaliter christiana. Dopo il naturalismo e il verismo positivista della seconda metà dell'Ottocento, l'opera di Pirandello segna una via ed un metodo nuovo. Egli appartiene alla grande famiglia dei Dostojewski, dei Tolstoi, dei Verga che attraverso i loro difetti mantennero intatta una fede nella vita e nell'umanità. Non somiglia per nulla agli scettici tipo Shaw, tipo Gide, tipo Unamuno, agli inumani analisti come Joyce, come Proust, come Svevo, agli sperimentatori in astratto come Huxley, come Mann, ai ricercatori di basso naturalismo come Wassermann, come Dos Passos, come insomma tutti i grandi corruttori del romanzo contemporaneo".

Un andare oltre. Mai oltre la bellezza giunta nel momento in cui tutto diventa provvisorio. In questo momento è la metafisica che si pone come barriera o orizzonte. Perché il riso che nasce dal sorriso ci appartiene dentro la consapevolezza della pietà e del mistero. Quando arriva la morte il pagliaccio, al quale ho fatto riferimento in termini zambraniani, smette la sua maschera e rischia la sua ombra.

La passione per il vivere inquietante si fa rappresentazione di una voce – parola. Pirandello, Camus, Zambrano restano nel buio con le luci spente ma c'è sempre la trasformazione, metamorfosi, della notte che si appiglia a un filo di chiaro nonostante il bosco nel quale ci siamo immersi. Stranieri o esclusi? Caduti e in solitudine? Ma la pietà è oltre il mistero!