Sotto il velo di Iside

 

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Ha scritto Mario Liverani, senz'altro uno dei maggiori studiosi di storia del Vicino Oriente, che: "L'impero ha certamente l'esigenza di 'unificare il comando' (n.d.r.: da sempre), ma forse non è necessario che chi ubbidisce abbia davvero capito. A livello ideale, la lingua unica significa ordine, compattezza; il multilinguismo invece è elemento del caos"[1].

Quest'affermazione ha il pregio di far risalire la contesa - è qui il caso di dire: per il potere -, indietro nel tempo almeno fino a quando lo stesso autore, immediatamente avanti nel testo, in ordine a quella che egli stesso definisce la preistoria dell'imperialismo, così annota: "Il mito biblico della Torre di Babele colloca la lingua unica nel passato originario (n.d.r.: d'Israele) e vede il multilinguismo come effetto della maledizione divina, o meglio come contromisura divina contro la sfrenata ambizione umana di raggiungere il cielo. Il mito biblico è talmente assorbito nella nostra formazione culturale che, quando si è scoperto un testo sumerico sulla 'confusione delle lingue' (è il mito di Enmerkar e Aratta), si è inteso il passo sull'unificazione come riferita al passato. Poi si è corretto il tiro, in base a contesto e logica narrativa, e si è visto che il passo si riferisce al futuro:

'In quel giorno i paesi di Subartu e di Hamazi, le cui lingue erano diverse da quelle di Sumer, paese di grande cultura e nobiltà, e anche Akkad, paese distinto, e anche i (nomadi) Martu che vivono in aperta campagna, e (insomma) tutto il mondo abitato parleranno al dio Enlil in una sola lingua. In quel giorno tutti quanti i signori, i nobili, i re, il dio Enki, signore che procura abbondanza, il cui discorso è giusto, che è il più intelligente, che è esperto di tutti i paesi e guida tutti gli dei, applicando la sua intelligenza, il signore di Eridu cambierà nelle loro bocche tutte le lingue esistenti. La lingua di tutta l'umanità diventerà una'"[2].

La lingua è il sumerico e l'età aurea profetizzata è quella che dovrebbe accadere sotto il regno di Ur III (fine III millennio e.a.). Rispetto all'epoca in questione, tuttavia, la storia in parte riscoperta conosce almeno già oltre un millennio di vita e di imprese collettive. All'inizio della prima età del bronzo (ca. 3000 e.a.), delle prime dinastie di faraoni egizi, e ancor prima della permanente indecifrata scrittura di Harappa[3], da cui - afferma Roberto Calasso - "discendono il sanscrito e il Rgveda", accade che la contesa - che, abbiamo detto, e in seguito, per il potere - si svolga tra "generazioni" appartenenti a un'unica stirpe divina: i Deva (dei) e gli Asura (antidei)[4]. Generazioni, in qualche modo opposte, e che perciò si combattono a vicenda, e che quindi già partecipano entrambe al rito, che è anche il sacrificio dell'esistente, ovvero non dell'Essere così inteso in genere dal greco Parmenide, ma di ciò che l'eleate stesso ebbe a dire in specie non resta che una sola parola che: "è"[5].

A fine di queste "inesauribili" contese, il padre di entrambe le generazioni, Prajapati - il signore vedico di tutte le cose generate, e poi viceversa create insieme all'uomo - "elesse i Deva e affidò (n.d.r.: per sempre) a loro il sacrificio". Perché lo fece?, a tale proposito così scrive Calasso: "Una volta accadde che gli Asura, arroganti, 'continuavano a sacrificare nella propria bocca', mentre i Deva preferivano sacrificare gli uni agli altri. A quel punto il loro padre, Prajapati, elesse i Deva e affidò a loro il sacrificio. Li preferì perché, prima ancora di sapere con precisione a chi dovevano ofrrire, avevano accettato che l'offerta fosse qualcosa di esterno, che passava da un essere a un altro, rompendo la membrana dell'autosufficienza, ricordo del corpo informe di Vrtra, il mostro primordiale"[6].

Quale sia stata la più antica civiltà, alla quale far risalire un'origine comune: è un dato che occorre ancora scoprire. L'uso del verbo al congiuntivo (sia) significa anche che la matrice culturale potrebbe anche non ri-velarsi unitaria. Nel suo prezioso saggio, dal titolo Il retaggio della Mesopotamia (1998, trad. it., Adelphi 2016), Stephanie Dalley divide le mappe cronologiche della prima età del bronzo in sei distinte aree geografiche: Grecia e Creta, Anatolia, Egitto, Siria e Levante, Mesopotamia (sud e nord), India. Queste aree o spazi - che così è meglio definirle, come anche nel prosieguo qui capiremo -, originariamente, non sono ancora degli "spazi" culturali, politici, religiosi; sono semplicemente degli spazi territoriali - direbbe a questo punto Martin Heidegger - dimorati dall'uomo.

In aggiunta ai nostri interrogativi, è tuttavia possibile operare una "chiarificazione". Scrive infatti Calasso che, a differenza di tutte le rappresentazioni delle altre culture, il corpus vedico della tradizione è rimasto intatto, e pertanto attraverso di esso è possibile risalire all'inizio della storia che è l'esatta rappresentazione di ciò che accade. E non c'è alcun dubbio che all'inizio, che il "progenitore" sia, così come è: Prajapati:

"Il dio all'origine di tutto non aveva un nome, ma un appellativo: Prajapati, signore delle creature. Lo scoprì quando uno dei suoi figli, Indra, gli disse: 'Voglio essere ciò che tu sei'. Allora Prajapati gli chiese: 'Ma io chi (ka) sono?'. E Indra rispose: 'Appunto ciò che hai detto'. Quindi Prajapati ebbe per nome Ka"[7].

E dunque il nome, nomen omen ovvero significativo del de-stino (ovvero, secondo la migliore interpretazione di E. Severino: "lo stare dell'essere e l'essere dello stare medesimo") che accade, divenne una cosa piuttosto recente che - come ripete Parmenide - serve ai mortali che "posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni" (op. cit., Fr. 7/8, v. 58). Così che Prajapati, che ebbe per nome Ka, e che quindi tuttavia già era, divenne per se stesso la rappresentazione dell'"ignoto" (esattamente: il divino dei greci antichi), "il garante dell'incertezza connessa al domandare"[8]. E ancor più, e ancor prima che apparisse "il domandare" ka era lo "spazio primordiale", e poi kha, dal suono leggermente aspirato, ovvero "il soffio". Al punto che "I fuochi risposero: 'Ciò che è ka è kha, ciò che è kha è ka' (…) Gli spiegarono così il soffio e lo spazio"[9].

Ma: come si articolava il soffio? Quale sia la radice (inizio) di ciò che è desinenza (termine) di una parola? Una parola che all'esterno rappresenta e comunica incertezza? Ar- è la radice che corrisponde esattamente all'articolazione giusta, all'ordine, che: "è". Ka- è la desinanza a cui è trasmesso all'esterno l'ordine (o principio) dell'incertezza, che: "è".

"Arka: parola che appartiene a un linguaggio segreto, di cui poco sappiamo. Lo riconobbe il più severo sacerdote dello Satapatha Brahmana, Armand Minard, che dedicò l'opera della sua vita a commentarlo, sillaba per sillaba, non senza la perversa soddisfazione di renderne l'accesso ancora più arduo: 'arkà-: raggio (lampo, fiamma, fuoco, sole), - pianta le cui foglie fiammate portano l'offerta a Rudra nella sua centuria lustrale (satarudriya), - laude, inno (=uktha), che è forse il senso primo (Ren. JAs 1939 344 n. 1)"[10].

L'arkà, che tuttavia sarà già l'ar-chè (al femminile) dei fisici ionici dell'epoca di Anassimandro, di seguito al Ka-οs (al maschile) delle origini di Esiodo. Ma da dove, in principio, questo fosse stato generato, è ora piuttosto il caso di (ri-)scoprirlo. Scrive ancora Calasso:

"I rapporti fra Mente e Parola furono sempre tesi e turbolenti". Nonostante che Prajapati abbia già deciso in favore di Mente, perché Mente è i Deva e Parola è gli Asura. "Egli decise in favore di Mente e disse (a Parola): 'Mente è senz'altro migliore di te, perché imiti ciò che ha fatto Mente e segui nella sua scia'". E pur dovendo Mente affermare continuamente la sua supremazia su Parola, "in quanto l'operare di Mente include in sé il linguaggio, ma lo travalica anche. Pensare non è un atto linguistico: questo era un fondamento della speculazione dei rsi. Ma pensare può anche essere un atto linguistico, quando i Deva, attraverso Yajna, saranno riusciti a condurre Vac (Parola) dalla loro parte" … "Parola e Mente devono stare entrambe dalla parte dei Deva, ma non devono essere congiunte: quella copula, l'intesa intima fra Mente e Parola, finirebbe per creare un essere di potenza tale da sopravanzare quella dei Deva. E i Deva vivono, sin dall'inizio, nel terrore di un tale momento" (Ibidem, pp. 147-154).

Perché questo, poi capiremo meglio.

Qui, occorre invece risalire al termine che sta per "mente" ovvero manas, che sarà il latino mens=pensiero. E non può essere certamente un caso, il fatto che Giovanni Semerano così scriva:

"Umberto Galimberti nel suo splendido Dizionario di psicologia evocò la definizione kantiana della "mano" come proiezione esterna della mente. Manus, che non ebbe un'etimologia, ha il suo antecedente nell'antico accadico manu (calcolare, computare). Ne risulta la mano come strumento naturale del computo per in digitazione, quale emerge nei libri di matematica sino al Settecento"[11].

Analisi che sembra trovare la più ampia conferma nelle parole di apertura del saggio citato della Dalley: "Che posizione occupavano quelle civiltà (assira e babilonese) rispetto alle altre civiltà antiche? (…) Nonostante gli enormi progressi compiuti dagli studi vicinorientali, la sfida è ancora aperta"[12]. In effetti, nel corso del saggio, la studiosa appare dimostrare che la cultura delle diverse civiltà, al di qua dell'Indo, abbia un unico retaggio comune, mesopotamico. "Quando, migliaia e migliaia di anni or sono, nacquero le prime forme di scrittura, nella Mesopotamia meridionale lungo le rive dei due grandi fiumi già esistevano fiorenti città, ed è probabilmente in quelle città che si è sviluppata la scrittura, inizialmente come sistema di contabilità (n.d.r.: delle merci che venivano scambiate)"[13].

E quindi l'origine risalirebbe al calcolo, ma anche alla matematica, quella medesima scienza di cui Kurt Godel, quasi un secolo fa (1931), s-velerà, e non vi appaia affatto un modo di dire, ogni segreto mediante i suoi due teoremi dell'incompletezza o indecidibilità. In base a una sintesi estrema di significato, tratta da wikipedia:

"Con qualche semplificazione, il primo teorema afferma che: In ogni formalizzazione coerente della matematica che sia sufficientemente potente da poter assiomatizzare la teoria elementare dei numeri naturali - vale a dire, sufficientemente potente da definire la struttura dei numeri naturali dotati delle operazioni di somma e prodotto - è possibile costruire una proposizione sintatticamente corretta che non può essere né dimostrata né confutata all'interno dello stesso sistema. Il secondo teorema di incompletezza di Gödel, che si dimostra formalizzando una parte della dimostrazione del primo teorema all'interno del sistema stesso, con qualche semplificazione, afferma che: Nessun sistema, che sia abbastanza espressivo da contenere l'aritmetica e coerente, può essere utilizzato per dimostrare la sua stessa coerenza".

Si capisce bene allora che la via (la stessa che è stata anche di Parmenide) è talmente intrecciata, che s'inerpica per sentieri anche interrotti, che furono anche di Heidegger, fino all'ingresso e all'uscita che ne indicano rispettivamente la provenienza dal passato e la destinazione nel futuro. Prima di terminare questo excursus, restano però due altre chiarificazioni.

Nell'adversus Colotem, opera redatta intorno alla fine del I secolo e.m., Plutarco confuta le tesi epicuree, e in particolare di Colote, allievo del maestro Epicuro, sostenendo in particolare che: "Neanche coloro che trattarono lungamente dell'epoche (n.d.r.: sospensione del giudizio), scrissero trattati e discorsi per confutarla, riuscirono poi a scuoterla. Ma alla fine costoro la vietarono, adducendo alla stoa l'accusa secondo la quale essa avrbbe portato come la testa della Gorgona all'inattività".

E quindi, ogni discorso ri-torna all'"ignoto", al divino, al ka o kaos dell'inizio, al regno del doppio e del numero di distinzione, zero e uno, e in definitiva all'algoritmo dell'attualità, ma pur sempre innominabile, (di Calasso)[14].

E quindi, non resta qui che chiarire un ultimo aspetto dell'intera questione affrontata. In altri termini, il merito o la colpa dell'in-attività, che, viceversa, agli occhi della mente di Plutarco costituiscono solo dei reciproci inganni.

"Ma io sospetto che i discorsi sull'impulso e l'assenso producano per Colote lo stesso effetto che per un asino l'ascolto di una lira. A coloro che invece sono in grado di comprendere e ascoltare, va detto che i movimenti dell'anima sono tre: rappresentativo, impulsivo e dell'assenso; e che quello rappresentativo non si può eliminare, neanche se uno lo volesse, ma necessariamente, imbattendoci negli oggetti, ne riceviamo un'impronta e subiamo un'affezione da essi provocata; quello impulsivo, suscitato dal rappresentativo, spinge l'uomo ad agire verso le cose appropriate, come se nell'egemonico si trovasse una bilancia e un'inclinazione. Dunque neanche questo movimento eliminano coloro che praticano un'epoche su tutte le cose, bensì si servono dell'impulso che naturalmente conduce verso ciò che appare appropriato. Qual è, perciò, l'unico movimento che essi evitano? Solamente ciò a cui sono connotati falsità e inganno, l'opinare e il precipitare, l'assenso, essendo questo un cedere per debolezza all'apparenza che non reca alcuna utilità".

E tuttavia, quest'ultima ri-capitolazione, i Veda l'hanno trascritta in un modo che appare senz'altro più valido ed efficace: Parola e Mente devono stare entrambe dalla parte dei Deva, ma non devono essere congiunte: quella copula, l'intesa intima fra Mente e Parola, finirebbe per creare un essere di potenza tale da sopravanzare quella dei Deva. E i Deva vivono, sin dall'inizio, nel terrore di un tale momento. Che pur accade e ri-accade più volte e di cui un tragico esempio è stato l'attivismo hitleriano. La cui opera, ispirata dal principio esclusivo dell'azione, è stata portata avanti anche perchè sostenuta da un significato apparentemente certo delle parole. Significato che, come sempre, è viceversa incerto.

                                                                                                                                                             Angelo Giubileo

 

 

 



[1] M. Liverani, Assiria - La preistoria dell'imperialismo, 2017, p. 231 s.

 

[2] Ibidem, p. 232.

[3] Sito archeologico nella regione del Punjab, nel Pakistan nord-orientale, nei pressi della cittadina di Harappa da cui prende il nome. È una delle più importanti città fortificate della civiltà della valle dell'Indo e della cosiddetta "cultura del Cimitero H". La città fiorì intorno al 3300 a.C. circa (wikipedia).

[4] In particolare, R. Calasso, L'ardore, 2010.

[5] Parmenide, Poema sulla natura, Fr. 7/8, v. 6,s.

[6] R. Calasso, L'ardore, 2010, p. 37.

 

[7] Ibidem, p. 95.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem, p. 121.

[10] Ibidem, p. 122 s.

[11] G. Semerano, L'infinito: un equivoco millenario, 2001, p. 5.

[12] Stephanie Dalley, Il retaggio della Mesopotamia, p.31.

[13] Ibidem, p. 45.

[14] Cfr. R. Calasso, L'innominabile attuale, 2017