Il sogno del Cavallo di Sandro Giovannini

 di Sandro Giovannini

 

Che ci fosse sopra, sotto, intorno, un'idea d'inganno non affiorata alla coscienza, lo sospettavo. Quella spinta così prepotente che si era imposta in me di realizzare effettivamente il grande cavallo, al di là della congerie d'impulsi determinatasi senza un'apparente causa, era d'evidenza innegabile. La furia ideativa e creativa non s'è fermata per un anno intero anche se ho continuato a fare, ovviamente, altre cose. Ma ero certo, ogni mattina, con il sole o la pioggia, freddo o caldo, che era quello che volevo perseguire, in un'abitudine assurda e compiaciuta, dove, alla fine, anche la stanchezza fisica trovava un suo quotidiano, meritato, riposo. (...)

"...Un approccio psicologico significa quel che dice il suo nome: una via psichica al mito, una connessione con il mito che procede attraverso l'anima, includendo specialmente la sua bizzarra fantasia e la sua sofferenza (psicopatologia), un disvelare ed estrarre l'anima riconoscendone importanza mitica e viceversa. Infatti è soltanto quando la psiche si riconosce come una messa in scena di mitemi che può 'comprendere' il mito, sicché una esegesi psicologica del mito ha inizio con l'esegesi di se stessi, con il 'fare anima'. E, reciprocamente: soltanto quando il mito è ricondotto nell'anima, soltanto quando il mito assume importanza psicologica diviene una realtà vivente, necessaria per la vita, e cessa di essere un artificio letterario, filosofico o religioso...". (1)

Benissimo... che io ne fossi convinto o meno, o meglio che mi sfiorasse il potente dubbio che una certificazione psicologica comunque fosse e sarà sempre una buona sequela per rintracciare l'orma di verità comode o scomode, soprattutto per evitare che l'interpretazione a posteriori decodificasse degnamente l'esaltazione fissata, (2) in questo caso latamente o strettamente artistica, direi che, mano a mano che i giorni utili crescevano ed il grande cavallo prendeva forma, il mio 'fare anima' si rinforzasse. Ma è come se tale intuizione fosse, platonicamente, il rivolgimento della coscienza dal sensibile al soprasensibile, che però come ben sappiamo non è d'ordine logico-discorsivo, ma d'ordine noetico e favorisce l'uomo nel presagire progressivamente l'animal'intero, l'intelletto puro, il Nous, ovvero ciò che, in consapevolezza crescente (secondo, ovviamente, la nostra visione del mondo) permane invariabilmente costante dietro l'apparire ed il divenire...

La stessa con-fusione delle forme, con da una parte il "valore avido di pericolo", al modo di Seneca (...ma è già tutto l'alto pensiero greco, da Erodoto ad Eschilo, che presenta il coraggio di esporsi al pericolo ed alla sofferenza come primaria possibilità d'una conoscenza piena della realtà esterna assieme a quella del nostro animo - (nel nostro caso, prova ne sia l'uso spregiudicato di tanti e vari materiali) e, dall'altro estremo - come ipotesi molto presente di caduta e fallimento - il calcolo più strettamente esigibile partendo dalla predisposizione al rifiuto totale del rischio che vorrebbe oggi dominare (in tutti i campi) in un certo tipo di società (la nostra) consumisticamente sedata e medicalizzata, potrebbe così trovare al suo centro il perfetto mediatore di successo ovvero il furbo artista. Non la separatezza selvaggia artemidea od ermetica magari nell'odierna versione anarcoide di massa, o la borghese soddisfatta autoesclusione normalizzata(si) ed esclusa(si) dal tragico, o l'atarassia fasulla della governance, che tanto piace ora alle pseudo-élite europee o l'esotico approdo nel nirvana forse non più di moda, od una fallimentare e senile evasione dalla storia, quanto l'investigarsi socratico, spinto ai limiti del potenziale umano (persino post-umanistico, forse anche nella logica d'agire in una 'realtà animata', realizzando le proprie forme nel modellare le forme del mondo come ne parla Hillman in 'Oltre l'umanismo'), ma sempre rammemorante l'inquietante daimon. Perch'è quello poi che ci governa. La forma allora si confonde in uno, nel suo stesso processo di formazione, che è una vocazione impregiudicata ancor prima di essere un'invocazione consapevole od una scelta apparentemente lucida.


Alla fine, se ben sperimentiamo, ci rendiamo conto che sono sempre i nostri sistemi ontologici, penetrati nella (dalla) persona e catafratti poi, invece, nella società - anche nella piccola vita di relazione configurata dalle reali od apparenti limitate potenzialità - qualsiasi possa attestarsi la nostra più spinta consapevolezza, critica ed autocritica, a scegliere per noi.  


Se poi comunque la fatalità ci inganni, se sembri divorarci tutto il tempo e lasciarci come gusci vuoti, dopo le infinite consumazioni subìte o temute, comunque gelidamente operanti, noi possiamo ancora implicarci in un totale vittorioso capovolgimento del nostro atteggiamento. Almeno del nostro. La malia del mondo olimpico: un'onesta incuranza per la necessità imposta(ci), dal mondo - pagandone prevedibilmente e chiaramente il prezzo sociale - l'attrazione dell'universale competizione verso l'alto (sperabilmente, per noi, mai paludata) e non finalizzata, (agire senza agire). Cercando di non rimanere stregati all'interno dello stesso cerchio magico che ci siamo creati da soli, con tanta fatica ed intelligenza o d'illudersi - al contrario - di poterne fuoriuscire facilmente, come se nulla fosse, ad un solo cenno dell'animo... Raggiungendo quella fine misura delle 'affinità elettive': "... chi vuol liberarsi dal male, sa sempre quel che vuole, chi vuole qualcosa di meglio di ciò che ha, è sempre cieco..." Il male sarebbe allora ciò che abbiamo ed il bene ciò che vorremmo ancora ed ancora, in più? Riflessione utile anche per porci di fronte al baratro della responsabilità... verso il fare, che non è solo, allora, goethianamente, il fare comprensibilmente umano contro la sofferenza, ma il fare ben al di là delle stesse avversità, odi, timori, ingiustizie, falsificazioni, incomprensioni, tutte potenze delle massive inclinazioni tamasiche. Non solo, ovviamente, nel fare artistico. Avremmo allora incredibilmente ancora risorse (le ricostituiremmo per osmosi) per assumerci la responsabilità del destino (anche nel nostro piccolo, senza per forza mettere in gioco, sempre, scenari che sembrino trascenderci intimamente o che ci illudano di una nostra totale insignificanza) di fronte a questa vacuità che attira come un vortex.


D'altra parte riconfortiamoci: se scopriamo definitivamente che anche quella che chiamiamo psicopatologia  è un modo essenziale della vita psicologica, un luogo comune (il dicibile/indicibile/ineffabile, perché prospettivamente di tutti, per tutti, ma senza alcuna banalità della vita troppo facilmente offesa, dell'accettarsi nel peggio)... come anche la clinica ha spesso dovuto ammettere, pur grandemente turbandosi e rendendosi fondamentalmente inetta a penetrarla soprattutto rispetto a certi plessi di cosiddetta "depravazione" (...il balbettio della comunità di fronte al grande male), sappiamo però ancor di più che ogni vacuità ed ogni  destino, quindi ogni errore/orrore e controscelta, sono anch'essi dentro il mito costitutivamente ed inespugnabilmente. Sono dentro la cognizione del dolore e del piacere e quindi in noi fin dall'inizio dei tempi e vi staranno fino alla fine. L'allucinata strategia di dissimulazioni, silenziamenti o sedazioni orwelliane del dolore, come l'opposta e disperata strategia dell'avviluppamento dell'intero universo nel dolore (meno - storicamente - nel piacere), rivelazioniste od orientaleggianti, non ci faranno meglio penetrare nelle categorie del tragico (qui e ora... non solo di un tragico filologico) ma nel grottesco. Quel grottesco storico che a volte e sempre più s'afferma come misura dell'in fine velocior. Ora possiamo verificarlo costantemente e quindi crederlo per accertamento. Qui allora si squaderna definitivamente il vero inganno della storia lineare, ma questa rivelazione non appare, appunto, per esaltazione fissata, ideologica, ma per conquista operativa. Anche artistica.


Ovvio che non possiamo fare - allora, partendo dal posteriore - delle artificiali "costruzioni mitiche" (eventualmente di opere palesemente, volgarmente, miticheggianti): "...Queste non sono perciò rappresentazioni mitiche, ma costruzioni mitiche. In un certo senso viene messa in atto più verità mitica nel vicolo che nei templi siciliani di Crowley o in un laboratorio di psicodrammi californiano dove si eseguono danze paniche...". (3)


In tal senso l'opera che nasce dalle nostre mani deve rifuggire anche - come deviante deriva - dall'eccessiva costruzione artificiale a priori. Non essere quindi programmata come artificiale, per quanto di artificiale abbia tutto, poi, resa in atto, ma come un'evenienza irresistibile - se possibile, dati certi percorsi d'autoformazione. Ma non è la parodia risibile del creativo, dell'attimo fuggente, del maledettismo, dello sregolamento, della devianza. Perché fantasia e comportamento, il dentro ed il fuori, non siano (sono) antitetici ma una sorta di continuum. Certo questo non sarebbe scuola, od in parte laterale, ma vita. Un continuum ibrido, denso, per nulla sistemato, a priori. Verranno dopo le sistematizzazioni, le giustificazioni, le attente analisi. Pur utili. Come sto facendo con questo "Sogno del Cavallo". Ma la ragione prima è la stessa dell'impulso incontrollabile, perché del tutto panico. Ciò è l'archetipico, ma non certo per una riflessione posteriore (o meglio... la riflessione può entrarci - è persino inevitabile - per non perderne il profumo ed il sapore - sin dall'inizio... entrare in quel continuum, ma con estrema discrezione, consapevoli della differenza tra memoria/archivio e memoria/cuore, cioè come memoria degli istanti originarii, per fissarli poi definitivamente nei nostri neuroni), quanto per una pregnanza indissolubile. E questo non impedirebbe, poi, il massimo possibile d'autoriflessione.


E d'altra parte ancora non è che possiamo (un esempio fra altri) raccogliere il senso di una "negatività dialettica" alla Kierkegaard, costitutiva dell'essenza dello spirito, da una parte come opposizione alla dialettica idealistica classica che alla fine tese comunque a conciliare la gnosi con la rivelazione o dall'altra, all'opposto tavolo di lavoro, la dissezione infinita, come sotto la lente pur validamente cangiante ma sempre decostruttiva del positivismo scientifico, sino alle teorie ultime della "inoggettività" dello sperimentare. Ed ancora il discorso sulla necessità del recupero del tragico che viene avanzato dal migliore Pensiero di Tradizione attuale (Sessa, Damiano, etc...) si determina proprio in totale contrapposizione alla spinta che enormemente preme dal basso (soprattutto come contesto occidentalista, ovviamente) di una fuga dalla responsabilità, per effetto della...

"...convinzione che i processi di recupero di ciò che preme sulla coscienza per essere redento dalla sua inerzia o dal suo disfacimento (il dolore, il passato, la memoria, la colpa, la morte) non possano ormai sensatamente intendersi se non in forma di miti, allegorie, creazioni artistiche, configurazioni del desiderio. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono infatti giudicate ormai irriscattabili, perché non possono più venir ritenute seriamente redimibili, né in un aldilà religioso, in una condizioni di risarcimento paradisiaco per il male sopportato, né in un futuro laico di generale soddisfazione terrena, mediante l'avvento di una società migliore, che toccherà in eredità ai nostri pronipoti. La trasformazione magico-alchemica del negativo in positivo e le promesse di ripagare le sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell'avvenire sono per molti diventate inattendibili. Si tende di più a sfruttare le occasioni e a vivere nel presente, sembra prevalere il desiderio di cogliere immediatamente, come doni irripetibilii, i rari momenti dell'amore, dell'amicizia, del piacere o del benessere, che altrimenti non potrebbero più tornare. E, parallelamente a sopportare nello stordimento e nella cupa rassegnazione un dolore ridiventato inspiegabile, una pena la cui sopportazione non mostra alcun elemento di nobiltà d'animo..." (4)


Dei tanti tragici (semplificando al massimo), di cui il postmoderno può tener conto, quello mitico, quello fideistico, quello romantico, quello idealistico, quello nihilistico, quello decostruttivo, etc., nelle loro partitarie innumeri declinazioni ed incroci, noi abbiamo come riferimento in prima istanza quello mitico, proprio per la sua originarietà indiscutibile e perché porta in sé il minor peso possibile di una consumazione storica che ci può impedire sovente di coglierne gli elementi essenziali. Discorso non privo, comprensibilmente, di pericoli e contraddizioni, anche perché noi siamo consapevoli che il tragico come strumento, nel mondo odierno del trapasso, è fondamentalmente diverso da quello che si imporrà, assieme a tutte le dimensioni della leggerezza e della gioia e persino dell'esaltazione (esaltazione al limite sempre del paesaggio etico, furor, guerra poesia, profezia... per seguire un titolo storico), in un universo che abbia potuto effettivamente superare la crisi nihilistica.


In tal senso ora procediamo a rivolgerci originariamente alla dimensione triadica dialettica, ove riscontriamo, comparativamente, ogni tipologia archetipica. Rivelante, in quanto fondante, ogni altro tipo di ricomprensione rivolta all'origine.   Riflettiamo, quindi, della dialettica, la dimensione ontologica. Allora sappiamo bene che oltre alla trinità assiro-babilonese, la dimensione originaria ne declinava ben altre. C'erano quelle induiste, buddiste, greche, etrusche, romane, galliche, iraniche... Ancora Adamo di Brema, diceva che nell'antico tempio di Uppsala, in Svezia, nel XIII secolo, venivano persistentemente venerate le statue di tre divinità: la più potente, Thor, aveva il trono al centro, ed invece, ai lati, Odino (Wotan) e Fery (Freyr). Nel culto di Mitra, vi è una triade formata da Ormuzd, Anahita, Mithra. Nelle tradizioni dell'estremo oriente, fin dai Veda a noi noti, ricorre sempre il tre. Brahma, Visnù, Shiva. Dalla metafisica aria, per la manifestazione del sacro. Tutto sembra, dal centrale al laterale, dall'ordine alla devianza, dall'equilibrio alla sproporzione, dal femminile al maschile, dall'attrazione alla repulsione, persino in ogni innegabile evenienza specifica, doversi rimoltiplicare all'infinito per tre, come inarrestabile processo dialettico...


E, i tre orizzonti dello scenario ontologico, corrispondono, nella dimensione antropologica, ai tre stati di coscienza dell'uomo: la veglia, il sogno ed il sonno profondo, sperimentando che ognuno di tali stadi fondamentali, preso a sé, ha potenti attributi sugli altri (potenzialità del rifluire), ma, che, nel terzo stadio, mirabilmente riassuntivo dei due (...perchè lì "noi" proprio non ci siamo e/o perché della "…stessa sostanza del Padre"), si determina una complessione che "....riposa nello spazio che è interno al cuore"... apprendre par coeur... (5) e..."...ci fa muovere a piacimento nel nostro regno" (6) e ciò, almeno in apparenza, del tutto autonomamente oltre che spontaneamente, perché non si sa quanto correlato al Sé e non del tutto ad Altro.


E, comunque, in ricerca tramite tante vie, qui al mezzogiorno nella piena luce senza ombra (perché poi dobbiamo riconoscere che è la fase di veglia trasfigurata, che sperimenta e che invera le altre... ed è dalla veglia che comunque moriamo, ovvero interrompiamo la nostra venuta al mondo...), il tempo si potrebbe arrestare, come lo spazio indefinirsi, nel fornirci l'esempio concreto del centro, quell'unico centro nostro e solo (moltiplicabile per ogni animato)... mezzo continuum (dei tre stati), rivelatosi ineliminabile in vita. Teorizzare sul piacere e sul dolore, con l'infinita diatriba sul chi abbia più consistenza ontologica o preminenza gerarchica, fondante linee spirituali, religiose, filosofiche, (ed ora anche scientifiche… basterebbe approfondire solo un poco la "ricaduta sociale" della ricerca neurobiologica sugli arti fastasma e sulla predeterminazione del sistema nervoso centrale…), potrebbe spegnersi, nel continuum, nel centro indubitabile ed, almeno in parte ed in divenire, realizzato.

Il sogno del cavallo, allora, s'era insediato giustamente nel secondo stato di coscienza, come in una sua dimensione centrale ed in fondo inespugnabile, ma baluginava dal profondo l'archetipo insondabile (da quel sé non sé) e riportava sempre poi, e ci riporta ancora ora, nella veglia, al rifrangersi infinito nello specchio che noi ricreiamo ad arte. Comunque in quell'intelligenza del rischio, di scoprire parti presentite (e forse, in parte almeno, sperimentate) e di metterle in un duro gioco senza eccessiva paura o timore del secolo, non essendo noi degli artisti ufficiali, dediti al vendere. Poi in quella veglia quotidiana, che ci fa estraneo il cavallo per la sua diversità radicale ed assieme orma indelebile ed ombra della memoria ancestrale... e sacrificabile, persino un giorno, in un rogo di legni, di metalli e di terre crude... quindi contemporaneo. Col suo essere innegabilmente rozzo e raffinato assieme, qualcosa del noi più reagente, e vitale...

Cosa importa se sia stato solo l'enosichthon, (7) lo scuotitore di terra, la parafrasi di un terremoto che esclude la conquista, forse a ricordare un rivolgimento epocale od una disgrazia somma, una decadenza innegabile nei secoli (il ritorno dell'identico) od una specifica guerra spietata, oppure quell'yppos, (8) quella concava nave dei doni e delle primizie dedicate agli dei della terra e del mare per impetrarne accoglimento o dipartita... o tutte e due? Non lo sapremo mai e tutto sommato poco importa farne un'esegesi che soddisfi la necessità, pur comprensibile, delle corrispondenze esterne.

Osserviamo internamente invece come il sogno del cavallo si sia solidificato e poi catafratto in una storia ben più ampia del solo inganno, del solo espediente, della sola realtà della follia... Noi siamo andati dalla mitica distruzione per fuoco di Troia, tramite il cavallo, dentro il cavallo, sulle statue sopra il cavallo, anche negli specchi che riflettono i nostri dubbi e le nostre certezze e la nostra stessa ventura di uomini consumati dalla civiltà terminale, fino alla scaturigine dell'idea, fino a quel concretissimo SPQR, (9) nato dal fuoco, che brucerà per sempre, nello stesso fuoco della disperazione, del sacrificio, della rinascita.


Note:



1) James Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, 1977, pag. 29.


2) Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo, Bompiani.


3) J. Hillman, cit., pag. 89.                                                                                                                            


4) Remo Bodei, Il senso della sofferenza, in: "Piacere e dolore", CUEN, 1999, pag. 44.


5) Ginette Paris, La grazia pagana. Artemide, Hestia, Mnemosine, Moretti e Vitali, 2002, pag. 147-148: "...Quando ci rappresentiamo la memoria come un libro, come degli archivi o degli schedari di biblioteca, noi concepiamo le informazioni e i ricordi come elementi sistemati da qualche parte, che al momento non sono disponibili e bisogna andare a cercare. Bisogna 'richiamare' i ricordi alla nostra memoria. Quel che noi abbiamo parcheggiato così nella memoria è, in un certo senso, inconscio e inutilizzabile finché non ci torniamo con un movimento della volontà. Questa concezione lineare della memoria, nutrita di psicologia volontaristica dell'io, è proprio all'opposto dell''incoscienza' che caratterizza le culture orali. Non è evidentemente né augurabile né possibile ritornare a quella sorta d''incoscienza' dell'uomo omerico. La coscienza, così come si manifesta nelle culture della scrittura, porta con sé una concezione della volontà individuale, una presa di distanza critica che sarebbe decisamente spiacevole perdere, visto che abbiamo faticato tanto per conquistarla. Ma è utile rendersi conto che siamo stati allenati, fin dalla scuola, a considerare la memoria come uno schedario da cui attingere l'informazione necessaria per prendere una decisione: si considerano gli elementi d'informazione che si possiedono nella propria 'filiera personale' e poi si sceglie d'esercitare la propria libertà agendo in questa o quell'altra maniera. Il greco che sapeva a mente i poemi d'Omero non doveva 'cercare nella sua memoria' per ricordare quel certo passo; le parole gli venivano alle labbra come se una voce gliele insufflasse al momento propizio, senza sforzo, senza ricerca nella memoria, per grazia di Mnemosine..." (...) "La memoria è nel cuore, perché, quando non ci viene più da lì, abbiamo solo labbra". (Marchesa di Sévigné)... apprendre par coeur (=a memoria)


6) Bṛhad-āraṇyaka-upaniṣad, II, I, 17. (All'inizio, in: I, I, 1: "...L'aurora è il capo del cavallo sacrificale, il sole è il suo occhio, il vento il suo respiro, il fuoco onnipresente la sua bocca, l'anno il suo corpo. Il cielo è il dorso del cavallo sacrificale; l'atmosfera è la sua pancia, la terra il suo inguine; i punti cardinali sono i suoi fianchi, i punti intermedi le sue coste, le stagioni le sue membra, i mesi e le quindicine le sue giunture, i giorni e le notti le sue gambe, le costellazioni le sue ossa, le nubi le sue carni. La sabbia è il cibo che egli digerisce; i fiumi i suoi intestini, i monti il suo fegato e i suoi polmoni, le erbe e le piante la sua criniera; il sole che si leva è il davanti del suo corpo, dietro il sole che tramonta. Il lampo è il suo ringhio, il tuono lo scuotimento del suo corpo, la pioggia la sua orina, la voce della parola il suo nitrito."). All'inizio si parla del "cavallo sacrificale", ovvero del sacrificio del cavallo, lo aśvamedha, mitema all'origine dell'universo. Infatti Mṛtyu, trae dal nulla l'universo per potersene nutrire, trasformandosi poi in un cavallo per potersi sacrificare a sua volta... Cfr. anche: P. Dumont, L'aśvamedha, Parigi 1927. Ma è chiaro che l'india vedica che non praticava la storiografia praticava già però la "storia del rituale", in quanto questo sacrificio del cavallo potrebbe ben essere definito, per la sua importanza che cresce nel tempo della ritualistica, un ur-sacrificio, una continua rivisitazione di un sacrificio originario che monta in complessità.


7) "...Il racconto tradizionale della fine di Troia è, in realtà, talmente debole che secondo il solito Dione di Prusa (Orazione, XI,118) la guerra si sarebbe conclusa con un accordo che lasciava la città in mano ai Troiani, e dunque con un sostanziale fallimento della spedizione (da notare che, dagli scavi condotti nel sito di Troia, non risulta che vi sia mai stato un insediamento acheo nella città). Interessante l'ipotesi, già avanzata da F. Schachermeyr (Poseidon, Bern 1950, 194), e recentemente riproposta da E. Cline (Poseidon's Horses: Plate Tectonics and Earthquake Storms in the 'Late Bronze Age Aegean and Eastern Mediterranean', "Journal of Archaeological Science" 27 [2002] 43-63, nonché, con specifico riferimento a Troia, Troy as a 'Contested Periphery': Archaeological Perspectives on Cross-Cultural and Cross-Disciplinary Interactions Concerning Bronze Age Anatolia, in "Hittites, Greeks and Their Neighbors in Ancient Anatolia: An International Conference on Cross-Cultural Interaction", Atlanta, 17-19 September 2004), secondo cui  il cavallo di Troia sarebbe da considerarsi come metafora di un terremoto, essendo il cavallo animale sacro a Poseidone, «scuotitore della terra» (Enosichthon)..." Da: Eleonora Cavallini, (!... N.d.A.), a Proposito di Troy, Quaderni di Scienza della Conservazione, 2004, pag. 301-333, nota 50, pag. 328.


8) Secondo la recente teoria dell'archeologo navale Francesco Tiboni...


9) Iliade, XX, 208..., cfr: "La profezia di Enea", L. Braccesi e V.M. Manfredi, Heliopolis Edizioni, collana Tabulae, varie edizioni.