R.A. Ventura- Radical choc: una recensione di Angelo Giubileo
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E' già difficile solo immaginare che un saggio sia capace di spiegare come va il mondo, almeno da quando gli uomini hanno deciso di non essere più nomadi e vivere in modo stanziale, in Occidente così come in Oriente; che questo saggio sia stato invece addirittura scritto appare paradossale, ma evidentemente non lo è affatto. La ragione di questo apparente paradosso credo che risieda nel fatto che l'autore – Raffaele Alberto Ventura – così come dice Alessandro Aresu, "è interessante per il modo in cui svolge la sua professione intellettuale, secondo tre principali canali: stare fuori dall'accademia ma traendo spunti anche da dibattiti universitari; contribuire a imprese culturali europee come Le grand Continent; cazzeggiare su Internet".
Il saggio s'intitola "Radical choc" (Einaudi 2020). Il linguaggio discorsivo non è sempre agevole. Il saggio si avvale di numerosi riferimenti a opere e scritti di autori sia antichi che moderni, appartenuti e appartenenti a diversi settori della cultura universale, e in particolare al pensiero di uno dei più importanti filosofi della tradizione araba, Ibn Khaldun (1332-1406).
La società, civile e civilizzatrice - tanto per semplificare e a emblema: la polis di Platone e Aristotele -, nasce universalmente dall'esigenza di garantire una sempre maggiore sicurezza possibile dagli eventi naturali che generano incertezza. La Ragione assolve dunque a una nuova funzione, affatto originaria, di sottoporre il caos alla legge dell'organizzazione politica; sostituendo al modello naturale di vita dell'uomo un diverso modello artificiale, fatto "a immagine e somiglianza" del precedente, che Platone e gli antichi chiamano divino. La Ragione diventa così uno strumento non più profetico ma dialettico (i cui errori Plutarco evidenziava già in La fine degli oracoli). Il caos non appartiene più all'ordine naturale delle cose ma ai componenti della società che occorre istruire (come nell'Accademia di Platone) e far diventare i "competenti" di oggi. La legge dell'organizzazione - con il suo stuolo di competenti e in primis re, sacerdoti, filosofi e giuristi - prende il posto della giustizia o meglio dell'ingiustizia divina di cui Anassimandro aveva detto: Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo.
L'ingiustizia legata all'incertezza è quindi il fondamento del Logos. La questione può essere affrontata sia da un punto di vista "epistemologico" che "sociale e politico". L'Autore decide pertanto di limitare l'analisi nel saggio all'ottica sociale e politica; ma, com'è già forse sembrato evidente da queste mie iniziali note di commento, l'impresa non può essere del tutto sganciata da una disamina "epistemologica", alla quale non intendo viceversa sottrarmi.
All'inizio del processo di razionalizzazione-civilizzazione, "la legittimità dei poteri e dei saperi" non deriva più da un ente trascendentale - che si serve della mediazione mistica e irrazionale, ovvero pro-fetica, di uno sciamano od oracolo -, bensì dalla "classe dei competenti": "la competenza riduce l'incertezza. Il competente è una macchina che riduce l'incertezza e garantisce la sicurezza" (64).
Il rapporto tra la sicurezza e i competenti si snoda attraverso i secoli in funzione del mezzo - che è e diventa sempre più la macchina - e non invece dello scopo. E cioè: lo scopo di garantire la sicurezza o meglio di diminuire l'incertezza genera un sistema economico di costi e benefici tale che nel 1967 l'economista Galbraith conclude: "Stiamo diventando i servitori, nel pensare come nell'agire, della macchina che abbiamo creato perché ci servisse" (74). E addirittura: "Nello stesso anno, il 1967, in cui uscivano contemporaneamente i libri di Debord, Mumford e Galbraith, la Metro-Goldwin-Mayer mandava in onda quello che sarebbe stato il penultimo episodio della sua serie animata più celebre: Tom & Jerry. E' un episodio strano, I robot si ribellano, che sembra reagire all'esaurimento di tutte le possibili idee e soluzioni narrative sviluppate in ventisette anni di onorata carriera decontestualizzando i personaggi in maniera piuttosto improbabile" (90).
E comunque l'origine dello Stato moderno, il processo di razionalizzazione-civilizzazione è per la prima volta validamente ed efficacemente descritto dal Leviatano di Hobbes (1651): "la minaccia che conduce all'autolimitazione da parte di ciascuno e alla costituzione del Leviatano è in origine la paura di morire. Nato per limitare una particolare fonte di incertezza, lo Stato si estende poi a tutte le incertezze minori: parte del rischio di perdere la vita e arriva a quello di perdere i propri diritti o la proprietà" (96). Lo Stato moderno segue cioè lo stesso tentativo dell'Impero romano, di Carlo Magno e della Chiesa medievale di globalizzare il sistema che intende ridurre progressivamente l'incertezza del mondo, caratterizzando in definitiva "l'ascesa del capitalismo" (100). Così che, già prima di Galbraith, Robert Michels aveva sintetizzato: "l'organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa". E in definitiva: "sembra di vedere, con cinquant'anni di anticipo, la stessa follia che colpisce l'intelligenza artificiale HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio: <la tendenza a eliminare tutto ciò che potrebbe fermare il meccanismo>" (118).
E qui, a mio parere, nel discorso s'introduce già di per sé il salto da un punto di vista "sociale e politico" a uno prettamente "epistemologico"; nel senso che la prospettiva del paradigma di riferimento all'interno del sistema-mondo potrebbe mutare: dal reale al virtuale, dal valore economico di scambio al valore artificiale che un nuovo processo di razionalizzazione-automazione potrebbe generare nell'ambito di un nuovo Apparato di sistema tecnico-scientifico.
Ma, rispettando la scelta dell'Autore, proseguiamo nella disamina analitica della questione da un punto di vista "sociale e politico" e quindi per quanto attiene, come anticipato, all'ascesa del capitalismo. Nel suo progressivo sviluppo, l'Autore estrapola la legge che lo contraddistingue e che Joseph Schumpeter ha messo in luce per primo: ogni sistema capitalistico tende necessariamente a rendimenti decrescenti. Ciò significa che l'intero sistema-mondo attuale non solo conduce alla riduzione dei rendimenti del capitale economico, simbolo per antonomasia del sistema capitalistico, ma piuttosto e in modo totalitario alla riduzione dell'intero capitale o patrimonio simbolico ovvero il jah. "Il jah è status, prestigio, fama, riconoscimento, reputazione, credito, onore, cultura: l'immagine che ognuno di noi proietta, la percezione sociale delle proprie competenze". E in definitiva: "il potere che alcuni uomini esercitano sugli altri" (157) (…) La classe competente gestirà con difficoltà sempre maggiore la complessità del mondo e inizierà a generarne di nuova. Più una struttura è grande, più sono alti i costi che deve sostenere per gestire la complessità" (187). Emergeranno, in fine, gli scarti e quindi coloro che inizieranno a fare le spese dell'azione distruttrice del capitalismo saranno i molti o moltissimi competenti, quelli che prima erano i pochi intellettuali e ancor prima i pochissimi filosofi: "Tenendo a mente l'insegnamento di Joseph Schumpeter sui cicli industriali, ci pare di poter considerare la circolazione delle élite come una forma di distruzione creatrice che segna diversi <cicli di legittimità>: il cambio di paradigma sembra precedere sia il collasso del sistema vigente che la totale operatività del sistema sostitutivo, lasciando sussistere un periodo di caos" (206).
Ma: se così sarà, vorrà dire che ha ragione l'Autore quando immediatamente aggiunge: "Questa (ndr: la fase attuale) crisi di paradigma è (ndr: sarà) contemporaneamente economica ed epistemologica" (208). E tuttavia non può necessariamente Egli stesso non nutrire il dubbio dell'incertezza. Il rischio c'è ed è sempre più alto, come ha dimostrato la tragica esperienza del Nazionalsocialismo. A un'analisi superficiale condotta in generale dai media, l'Autore contrappone fulgide parole - parmenidee - di "verità e giustizia": "Ad affrontare di petto il paradigma meccanicista della civiltà moderna fu un intellettuale di levatura sicuramente più grande rispetto a Mussolini (ndr: quello socialista del 1920): Carl Schmitt. Allievo di Max Weber e dal 1933 intellettuale organico al nazionalsocialismo, il giurista denunciava nel 1936 l'incubo di uno <Stato centralistico. Dal funzionamento calcolabile>, opponendogli la sua teoria della decisione pura, che avrebbe dovuto realizzarsi con Hitler (…) Nella visione schmittiana c'era da una parte la burocrazia, fredda, e dall'altra la politica, calda e pulsante come la vita, capace forse di reincantare il mondo, ma prendendosi il rischio di distruggerlo (…) Di fatto, bisogna ammettere che la tragedia fu il risultato dell'incontro tra due fattori: un'organizzazione di tipo industriale e un'ideologia mortifera che la fece letteralmente deragliare dai suoi scopi originari: organizzare, approvvigionare, trasportare, proteggere …". Dopo la fine del Nazionalsocialismo, "tutti convenivano sul fatto che qualcosa era sfuggito al controllo. Mezzo secolo più tardi, Zygmunt Bauman scriverà: <L'Olocausto fu pensato e messo in atto nell'ambito della nostra società razionale moderna, nello stadio avanzato della nostra civiltà e al culmine dello sviluppo culturale umano: ecco perché è un problema di tale società, di tale civiltà e di tale cultura" (215-217).
E allora, oggi, qual è dunque il rischio? A parte quello epistemologico, derivante a mio parere piuttosto dal processo di razionalizzazione-automazione in atto, Ventura conclude altresì, dubitativamente: "Con questa crisi abbiamo assistito semplicemente all'accelerazione di un processo, già in atto da anni, di adattamento delle strutture politiche a un mondo sempre più popolato da rischi ed emergenze. E se fossimo stati democratici soltanto finché abbiamo potuto permettercelo?" (226-227).