Angelo Giubileo-IL FISICO PARMENIDE
Dice Parmenide che "l'essere è e non è possibile che non sia e il non essere non è e non è possibile che sia". La frase pone dunque essenzialmente una differenza tra i cosiddetti "essere" e "non essere". Cosa vuol dire questo? Qual è il significato che dobbiamo attribuire ai due termini contrapposti? Se diciamo il "non essere", cosa intendiamo dire? Allora, essenzialmente, noi intendiamo dire che il "non essere" appare nel discorso e quindi nel detto come una forma di "assenza" o "mancanza". Si tratta di una forma verbale, e cioè del dire, e di una forma logica, cioè della mente. Ma, come rappresentare questa forma, mediante i sensi? Allora, essenzialmente, facciamo ricorso all'uso di un altro termine: il "vuoto".
Ma gli antichi greci di allora, compreso Parmenide, sostenevano che "il vuoto", così come l'intendiamo noi comunemente, non é e non può essere in quanto ciò che diciamo "vuoto" indica comunque la "presenza" di un qualcosa. E quindi "il vuoto", anche secondo l'ordine dei sensi, rappresenta una "presenza"; così che possiamo concludere che ogni cosa, perfino "l'assenza" indica viceversa una "presenza" e quindi ogni cosa è e non può non essere. Non a caso, lo stesso Agostino sarebbe giunto al proprio fine a dire che "il male non è che assoluta mancanza del bene".
Ma cosa sia il "bene", questo il discorso di Parmenide non lo dice.
Dunque: "l'essere è e non può non essere" questa è la sola via che dobbiamo affrontare. Come peraltro abbiamo già inteso, il discorso di Parmenide tiene per così dire in conto sia l'"ordine sensibile" che l'"ordine intellegibile". Puntuale testimonianza di ciò è data da Plutarco nel suo Adversus Colotem.
Ora dice anche Parmenide che gli uomini "posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d'una non c'era bisogno, in questo si sono ingannati, l'una dall'altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all'altro; anch'esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante. Io t'enuncio di ciò sistema in tutto plausibile, sì che mai opinione corrente possa sviarti." (Parmenide, Sulla natura, trad. Giovanni Cerri).
E quindi, ripetiamo, essenzialmente:" posero duplice forma a dar nome alle loro impressioni: d'una non c'era bisogno, in questo si sono ingannati". Parmenide dice qui di due forme che danno nome alle impressioni degli uomini, una per così dire ingannevole, al contrario evidentemente dell'altra. Ma, innanzitutto, qual è la natura di queste "impressioni"? Coerentemente a quanto sopra riportato, devono trattarsi di "impressioni" comuni, direi le medesime, sia all'ordine dei sensi che della mente. Tutte queste "impressioni" danno quindi origine, secondo il giudizio degli uomini, a due "forme", di cui una è ingannevole, e "di cui non c'era bisogno". E cioè nel senso che le due "forme" sono piuttosto una, che dovrebbe pertanto essere presente in modo perfettamente uguale ad entrambi gli ordini predetti. E quindi: per Parmenide ogni cosa, che è presente, è presente secondo entrambi gli ordini, in una e una sola forma, affinché l'altra, di cui non c'era necessità, non sia ingannevole. Un'unica forma ovvero un'unica "natura" inerente ai "corpi" ovvero le presenze che accadono e che agli uomini danno impressioni a cui, erroneamente, poniamo duplice nome.
Dirà Aristotele, nella sua Metafisica, che "i nostri progenitori delle più remote età hanno tramandato ai loro posteri una tradizione, in forma di mito, secondo cui questi corpi sono dèi e il divino racchiude l'intera natura. Il resto della tradizione è stato aggiunto più tardi in forma mitica … essi dicono che questi dei hanno forma umana o son simili ad alcuni degli altri animali … Ma se si dovesse separare il primo punto da queste aggiunte e lo si considerasse da solo – il fatto cioè che essi pensavano che le prime sostanze fossero dèi – lo si dovrebbe ritenere un'enunciazione ispirata e riflettere che, mentre probabilmente ciascun'arte e ciascuna scienza sono state più volte sviluppate fin dove era possibile per poi perire di nuovo, queste opinioni, assieme ad altre, sono state preservate fino a oggi come reliquie dell'antico tesoro" (in G. De Santillana-H. Von Dechend, Il mulino di Amleto).
La tradizione di Aristotele dice dunque che tutti i "corpi" sono "dei". Emblematicamente, questa tradizione è presente sia allo gnosticismo che al cristianesimo, entrambi intendono l'uomo un dio, e pertanto lo collocano al centro, inizio e fine di un progetto dell'intera "Natura".
È forse questa la forma ingannevole di cui dice Parmenide? Non esattamente. L'inganno degli uomini, a se stessi, è piuttosto quello di istituire una forma "di cui non c'era bisogno", dato che, dice Parmenide: "l'una dall'altra figura distinsero e posero segni opposti fra loro, di qua il fuoco etereo vampante, utile, assai rarefatto, leggero, in sé del tutto omogeneo, altro rispetto all'altro; anch'esso però in se stesso notte cieca al contrario, forma densa e pesante".
Alla ricerca della forma perfettamente comune ad entrambi gli ordini, il fisico Parmenide ribadiva il principio, comune sia alla fisica classica che moderna, secondo cui, avrebbe poi così sintetizzato Einstein: "se è certo non è fisica, se è fisica non è certa".
Un'ultima annotazione, riferita all'oggi. Jim Baggott, noto divulgatore scientifico dell'età contemporanea, scrive che "anche se il nostro mondo fisico è pieno di oggetti duri e pesanti, è in realtà l'energia dei campi quantistici a regnare sovrana. La massa è semplicemente una manifestazione fisica di quell'energia, non è il contrario. La conclusione è piuttosto sconvolgente dal punto di vista concettuale, ma allo stesso tempo straordinariamente affascinante. La caratteristica comune a tutto l'universo è l'energia dei campi, non sono duri e impenetrabili atomi. Non sarà il sogno a cui si erano aggrappati i filosofi, ma è pur sempre un sogno" (J. Baggott, Massa).
E cioè il sogno degli uomini che comprendano l'"essenza" di ogni cosa "presente" nel proprio destino. Destino, tuttavia, anche a conti fatti, "anch'esso però in se stesso notte cieca al contrario". Salvo che "l'essere", come direbbe Martin Heidegger, non man-tenga l'essenza dell'uomo. Ma: se in futuro così dovesse essere, non sarebbe più la storia degli uomini.
Angelo Giubileo
--
Roberto Guerra