Apple 40 anni di Mondo Nuovo 2.0, nonostante la Repubblica delle banane...
Nota di ASINO ROSSO, 4 secondi luce fa, Apple, Steve Jobs e mutanti del nostro tempo cominciarono a cambiare il mondo... Lo sanno anche gli aborigeni e gli esquimesi e i batteri probabili di Titano. Ma in Italia, leggete bene e non solo tra le righe, un certa testata ben nota per le sue costanti contraddizioni tardoborghesi ipocrite e diversamente kattokomuniste non trova di meglio, ricordando l'evento epocale per la storia della tecnologia e del nostro tempo (e non solo dopo Apple ovviamente) che certo commentario semplicemente italiota e - in un sol colpo. grande lapsus significativo e fumante del solito passatismo nazionale. E che spiega certe sinapsi italiane dominanti e la famosa crisi altrettanto epocale.... Ma non per colpa degli astri...
SAN FRANCISCO - Circa 40 anni fa - al tempo in cui esistevano i settimanali e le edicole, si telefonava con il gettone e non bisognava togliersi le scarpe per prendere un aereo - ebbi la fortuna di essere inviato a scrivere di uno strano posto in California chiamato "Silicon Valley", di cui si raccontavano meraviglie, così diverso da un'Italia che allora era un grigio paesaggio di fabbriche, turni di lavoro, ciminiere e sindacati. Arrivato, mi spiegarono che "silicon" stava per "silicio", non per "silicone". E che il silicio, ovvero la sabbia allo stato puro, è il miglior conduttore di elettricità che ci sia. Come dire: il petrolio a gratis.
Il luogo era davvero una vasta valle, ricca di boschi e di agrumeti, con eucaliptus giganteschi, a sud della baia di San Francisco, dominata dall'antica università di Stanford. Qui due ingegneri, Robert Noyce e Gordon Moore avevano scoperto che si potevano "miniaturizzare" i circuiti elettronici stampati su silicio: un congegno che fino all'anno prima occupava una stanza, ora stava sul palmo di una mano.
Nel 1971 avevano fondato una loro piccola società - la Intel - e avevano messo in vendita, per 370 dollari, il "4004" che conteneva l'equivalente di 2.300 transistor. Tre anni dopo, nei negozi di elettronica si poteva comprare il "6502", con le stesse prestazioni, per venti dollari. Lo assemblavano, in gran segreto, in certi scantinati, delle donne messicane pagate tre dollari l'ora. Dove sarebbe andata quella spaventosa capacità di calcolo, non lo sapeva nessuno.
I computer, fino ad allora, erano soprattutto patrimonio dell'industria militare che dominava la California. Ora, invece, che il "microchip" si comprava sul bancone, tutti nella Valley avevano un'idea in proposito. Il computer si poteva unire a uno schermo televisivo, a una tastiera, a un amplificatore; permetteva di scrivere e conservare i testi, gestire un magazzino, compilare enormi elenchi di dati, prevedere avvenimenti futuri, dare i comandi a un robot per tagliare un abito su misura. I nuovi sacerdoti erano i programmatori informatici, il loro Vangelo era il "Basic", una stringa infinita di lettere e numeri, un linguaggio per iniziati.
Steve Jobs aveva ventisei anni ed era già un personaggio famoso. Nel 1976 aveva fondato la "Apple", un'aziendina pimpante che aveva come simbolo una mela morsicata con i colori arcobaleno del nascente movimento gay - si diceva in omaggio al matematico inglese Alan Turing, omosessuale perseguitato che si era suicidato mangiando una mela avvelenata. Si diceva anche che sui prodotti Apple non ci fosse il tasto "on/off" perché Jobs aveva paura della morte. Il suo socio era un polacco, Steve Wozniak, bravissimo a costruire circuiti elettronici, ma non un filosofo: aveva una segreteria telefonica che esordiva con una greve barzelletta su quanto sono stupidi i polacchi. Steve Jobs era l'opposto: era carismatico. Occorre però ricordare che a San Francisco, in quei tempi, il carisma era diffuso. Qui, nel giro di pochi anni, gli studenti universitari si erano ribellati all'autorità; il proprietario di un negozio di sviluppo e stampa fotografica, tale Harvey Milk, aveva avuto l'idea di presentarsi alle elezioni locali in quanto gay (prima volta sul pianeta). Era stato eletto, ma era stato ucciso, insieme al sindaco, da un consigliere che non amava i gay. Un predicatore, il reverendo Jim Jones, aveva raccolto settecento seguaci e li aveva portati a rifarsi una vita nella Guyana dove il governo gli aveva dato del terreno. Inseguito dalla legge aveva convinto tutti i settecento a bere una pozione da un certo bicchierino che le guardie andavano distribuendo: il più grande suicidio di massa della storia. La signorina Patty Hearst, ricchissima ereditiera di un impero editoriale, sequestrata da un gruppo terroristico, si era messa allegramente a rapinare banche insieme a loro.
Tutto questo per dire che intorno alla Silicon Valley quella che si respirava era un'aria di radicalismo, di avventura, di pazzia alla portata di mano. Ricordo che due dei più brillanti fisici di Stanford, Norman Packard e Doyne Farmer, avevano messo a punto un mini computer che, infilato in una scarpa, poteva prevedere dove sarebbe caduta la pallina della roulette: volevano sbancare Las Vegas e regalare il malloppo ai guerriglieri del Salvador. Altri avevano costruito dei massicci computer pubblici da sistemare agli angoli delle strade; al costo di 25 cents avrebbero fornito musica e poesie. A Menlo Park, dove oggi ci sono i quartieri generali di Facebook, in una casa di legno si era sistemato l'"Home Brew Computer Club", dove Wozniak, Jobs e altre centinaia di dilettanti pasticciavano con progetti, invenzioni, scatole magiche per fregare la compagnia dei telefoni.
Steve Jobs aveva avuto una vita non comune. Figlio di una studentessa svizzera e di un siriano (sì: proprio un siriano, impiegato all'università), dato in adozione appena nato, studente universitario mancato, vegetariano, buddista, viaggiatore in India, estimatore dell'Lsd ("La mia differenza con Bill Gates è che lui non l'ha mai provato"), il ragazzo era particolarmente bello, con lunghi capelli castani che si ravvivava in continuazione con entrambe le mani. Sosteneva di mangiare solo mele, che depuravano il corpo e rendevano inutile il lavarsi. Aveva avuto una figlia, Lisa, non l'aveva riconosciuta, ma aveva chiamato una sua macchina con il suo nome; era anche stato brevemente fidanzato con Joan Baez, ma solo per far vedere a tutti che l'aveva portata via a Bob Dylan.
Quando lo incontrai, nella sede - quattro stanze - della Apple a Cupertino, disse subito che non avrebbe parlato dei suoi prodotti futuri ("sono un segreto"), ma fece un monologo sul rapporto uomo-macchina, sulla saggezza dei bambini, sulla capacità dell'uomo in bicicletta di spostarsi più velocemente del condor. Alla domanda su che tipo di lavoro si facesse alla Apple, rispose "non ci sono orari, ci interessa solo la creatività. Per questo i migliori vogliono venire da noi". Tre anni dopo i suoi prodotti erano già un culto: Jobs era il sacerdote di eventi, nei suoi negozi non c'erano commessi, ma evangelisti; i suoi oggetti erano i più belli, i più eleganti, i più cari, aveva reso amica la macchina, gli aveva messo dentro colori e fantasia. La macchina componeva musica, creava quadri, inventava caratteri grafici, si faceva sfiorare con le dita o con un mouse. Aveva fama di essere un padrone molto autoritario. Ai dipendenti succhiava tempo e anima in cambio di stock options; spiava i suoi ingegneri, temendo che andassero a letto con la concorrenza, ma con la concorrenza costruì un cartello per tenere bassi i salari. Non assumeva volentieri donne, né afroamericani, né latinos. L'idea di sindacato era una bestemmia. Il più grande inventore e innovatore del capitalismo fu un figlio eccezionale di un'epoca, di una demografia favorevole, di un ambiente di libertà. Ma nessuno gli chiese mai di essere anche buono. Solitario e dittatoriale, Jobs venne colpito dal cancro quando aveva appena quarantotto anni. Sarebbe sopravvissuta la Apple senza di lui? In realtà, con la morte vicina, la sua creatività raggiunse un culmine incredibile di bontà. L'iPod regalò la musica, l'iPhone mise a disposizione di tutti, su un piccolo schermo, il sapere del mondo, sotto forma di app gratuite. Jobs morì a cinquantasei anni. A San Francisco i ragazzini piangevano.
Le invenzioni finirono con il loro creatore ma, a quarant'anni dalla sua fondazione, Apple è la più grande concentrazione finanziaria del pianeta. Ha la forza e i problemi di uno Stato, e peraltro sta costruendo la sua capitale, proprio a Cupertino dove tutto cominciò. Sarà un'astronave circolare per dodicimila dipendenti, su un milione di metri quadri con ottomila alberi da frutta trapiantati. Ma forse sarà la sua tomba: Apple non ha "the new thing", impiega più avvocati che creativi, è troppo delocalizzata in Cina, lotta con il fisco. Non è più quella comunità di persone "affamate, folli", come le aveva definite Jobs. La mela che addentarono, la stanno digerendo.
Silicon Valley è oggi la più grande concentrazione di miliardari del pianeta. Google, Facebook, Apple detengono il maggiore e più antipatico dei poteri: sono in grado di orientare la morale pubblica. Nella valle lavorano centomila techies, con le loro scuole private, le loro biciclette, il loro culto della salute. Si spostano su enormi bus che per le strade di San Francisco fanno l'effetto sgradevole delle Grandi Navi a Venezia. Qualcuno si opporrà a questa nuova élite, i figli sazi di Steve Jobs?
alberi da frutta trapiantati. Ma forse sarà la sua tomba: Apple non ha "the new thing", impiega più avvocati che creativi, è troppo delocalizzata in Cina, lotta con il fisco. Non è più quella comunità di persone "affamate, folli", come le aveva definite Jobs. La mela che addentarono, la stanno digerendo.
Silicon Valley è oggi la più grande concentrazione di miliardari del pianeta. Google, Facebook, Apple detengono il maggiore e più antipatico dei poteri: sono in grado di orientare la morale pubblica. Nella valle lavorano centomila techies, con le loro scuole private, le loro biciclette, il loro culto della salute. Si spostano su enormi bus che per le strade di San Francisco fanno l'effetto sgradevole delle Grandi Navi a Venezia. Qualcuno si opporrà a questa nuova élite, i figli sazi di Steve Jobs?
http://www.repubblica.it/tecnologia/prodotti/2016/03/27/news/apple_40_anni_dopo_la_mela_avvelenata-136390062/
SAN FRANCISCO - Circa 40 anni fa - al tempo in cui esistevano i settimanali e le edicole, si telefonava con il gettone e non bisognava togliersi le scarpe per prendere un aereo - ebbi la fortuna di essere inviato a scrivere di uno strano posto in California chiamato "Silicon Valley", di cui si raccontavano meraviglie, così diverso da un'Italia che allora era un grigio paesaggio di fabbriche, turni di lavoro, ciminiere e sindacati. Arrivato, mi spiegarono che "silicon" stava per "silicio", non per "silicone". E che il silicio, ovvero la sabbia allo stato puro, è il miglior conduttore di elettricità che ci sia. Come dire: il petrolio a gratis.
Il luogo era davvero una vasta valle, ricca di boschi e di agrumeti, con eucaliptus giganteschi, a sud della baia di San Francisco, dominata dall'antica università di Stanford. Qui due ingegneri, Robert Noyce e Gordon Moore avevano scoperto che si potevano "miniaturizzare" i circuiti elettronici stampati su silicio: un congegno che fino all'anno prima occupava una stanza, ora stava sul palmo di una mano.
Nel 1971 avevano fondato una loro piccola società - la Intel - e avevano messo in vendita, per 370 dollari, il "4004" che conteneva l'equivalente di 2.300 transistor. Tre anni dopo, nei negozi di elettronica si poteva comprare il "6502", con le stesse prestazioni, per venti dollari. Lo assemblavano, in gran segreto, in certi scantinati, delle donne messicane pagate tre dollari l'ora. Dove sarebbe andata quella spaventosa capacità di calcolo, non lo sapeva nessuno.
I computer, fino ad allora, erano soprattutto patrimonio dell'industria militare che dominava la California. Ora, invece, che il "microchip" si comprava sul bancone, tutti nella Valley avevano un'idea in proposito. Il computer si poteva unire a uno schermo televisivo, a una tastiera, a un amplificatore; permetteva di scrivere e conservare i testi, gestire un magazzino, compilare enormi elenchi di dati, prevedere avvenimenti futuri, dare i comandi a un robot per tagliare un abito su misura. I nuovi sacerdoti erano i programmatori informatici, il loro Vangelo era il "Basic", una stringa infinita di lettere e numeri, un linguaggio per iniziati.
Steve Jobs aveva ventisei anni ed era già un personaggio famoso. Nel 1976 aveva fondato la "Apple", un'aziendina pimpante che aveva come simbolo una mela morsicata con i colori arcobaleno del nascente movimento gay - si diceva in omaggio al matematico inglese Alan Turing, omosessuale perseguitato che si era suicidato mangiando una mela avvelenata. Si diceva anche che sui prodotti Apple non ci fosse il tasto "on/off" perché Jobs aveva paura della morte. Il suo socio era un polacco, Steve Wozniak, bravissimo a costruire circuiti elettronici, ma non un filosofo: aveva una segreteria telefonica che esordiva con una greve barzelletta su quanto sono stupidi i polacchi. Steve Jobs era l'opposto: era carismatico. Occorre però ricordare che a San Francisco, in quei tempi, il carisma era diffuso. Qui, nel giro di pochi anni, gli studenti universitari si erano ribellati all'autorità; il proprietario di un negozio di sviluppo e stampa fotografica, tale Harvey Milk, aveva avuto l'idea di presentarsi alle elezioni locali in quanto gay (prima volta sul pianeta). Era stato eletto, ma era stato ucciso, insieme al sindaco, da un consigliere che non amava i gay. Un predicatore, il reverendo Jim Jones, aveva raccolto settecento seguaci e li aveva portati a rifarsi una vita nella Guyana dove il governo gli aveva dato del terreno. Inseguito dalla legge aveva convinto tutti i settecento a bere una pozione da un certo bicchierino che le guardie andavano distribuendo: il più grande suicidio di massa della storia. La signorina Patty Hearst, ricchissima ereditiera di un impero editoriale, sequestrata da un gruppo terroristico, si era messa allegramente a rapinare banche insieme a loro.
Tutto questo per dire che intorno alla Silicon Valley quella che si respirava era un'aria di radicalismo, di avventura, di pazzia alla portata di mano. Ricordo che due dei più brillanti fisici di Stanford, Norman Packard e Doyne Farmer, avevano messo a punto un mini computer che, infilato in una scarpa, poteva prevedere dove sarebbe caduta la pallina della roulette: volevano sbancare Las Vegas e regalare il malloppo ai guerriglieri del Salvador. Altri avevano costruito dei massicci computer pubblici da sistemare agli angoli delle strade; al costo di 25 cents avrebbero fornito musica e poesie. A Menlo Park, dove oggi ci sono i quartieri generali di Facebook, in una casa di legno si era sistemato l'"Home Brew Computer Club", dove Wozniak, Jobs e altre centinaia di dilettanti pasticciavano con progetti, invenzioni, scatole magiche per fregare la compagnia dei telefoni.
Steve Jobs aveva avuto una vita non comune. Figlio di una studentessa svizzera e di un siriano (sì: proprio un siriano, impiegato all'università), dato in adozione appena nato, studente universitario mancato, vegetariano, buddista, viaggiatore in India, estimatore dell'Lsd ("La mia differenza con Bill Gates è che lui non l'ha mai provato"), il ragazzo era particolarmente bello, con lunghi capelli castani che si ravvivava in continuazione con entrambe le mani. Sosteneva di mangiare solo mele, che depuravano il corpo e rendevano inutile il lavarsi. Aveva avuto una figlia, Lisa, non l'aveva riconosciuta, ma aveva chiamato una sua macchina con il suo nome; era anche stato brevemente fidanzato con Joan Baez, ma solo per far vedere a tutti che l'aveva portata via a Bob Dylan.
Quando lo incontrai, nella sede - quattro stanze - della Apple a Cupertino, disse subito che non avrebbe parlato dei suoi prodotti futuri ("sono un segreto"), ma fece un monologo sul rapporto uomo-macchina, sulla saggezza dei bambini, sulla capacità dell'uomo in bicicletta di spostarsi più velocemente del condor. Alla domanda su che tipo di lavoro si facesse alla Apple, rispose "non ci sono orari, ci interessa solo la creatività. Per questo i migliori vogliono venire da noi". Tre anni dopo i suoi prodotti erano già un culto: Jobs era il sacerdote di eventi, nei suoi negozi non c'erano commessi, ma evangelisti; i suoi oggetti erano i più belli, i più eleganti, i più cari, aveva reso amica la macchina, gli aveva messo dentro colori e fantasia. La macchina componeva musica, creava quadri, inventava caratteri grafici, si faceva sfiorare con le dita o con un mouse. Aveva fama di essere un padrone molto autoritario. Ai dipendenti succhiava tempo e anima in cambio di stock options; spiava i suoi ingegneri, temendo che andassero a letto con la concorrenza, ma con la concorrenza costruì un cartello per tenere bassi i salari. Non assumeva volentieri donne, né afroamericani, né latinos. L'idea di sindacato era una bestemmia. Il più grande inventore e innovatore del capitalismo fu un figlio eccezionale di un'epoca, di una demografia favorevole, di un ambiente di libertà. Ma nessuno gli chiese mai di essere anche buono. Solitario e dittatoriale, Jobs venne colpito dal cancro quando aveva appena quarantotto anni. Sarebbe sopravvissuta la Apple senza di lui? In realtà, con la morte vicina, la sua creatività raggiunse un culmine incredibile di bontà. L'iPod regalò la musica, l'iPhone mise a disposizione di tutti, su un piccolo schermo, il sapere del mondo, sotto forma di app gratuite. Jobs morì a cinquantasei anni. A San Francisco i ragazzini piangevano.
Le invenzioni finirono con il loro creatore ma, a quarant'anni dalla sua fondazione, Apple è la più grande concentrazione finanziaria del pianeta. Ha la forza e i problemi di uno Stato, e peraltro sta costruendo la sua capitale, proprio a Cupertino dove tutto cominciò. Sarà un'astronave circolare per dodicimila dipendenti, su un milione di metri quadri con ottomila alberi da frutta trapiantati. Ma forse sarà la sua tomba: Apple non ha "the new thing", impiega più avvocati che creativi, è troppo delocalizzata in Cina, lotta con il fisco. Non è più quella comunità di persone "affamate, folli", come le aveva definite Jobs. La mela che addentarono, la stanno digerendo.
Silicon Valley è oggi la più grande concentrazione di miliardari del pianeta. Google, Facebook, Apple detengono il maggiore e più antipatico dei poteri: sono in grado di orientare la morale pubblica. Nella valle lavorano centomila techies, con le loro scuole private, le loro biciclette, il loro culto della salute. Si spostano su enormi bus che per le strade di San Francisco fanno l'effetto sgradevole delle Grandi Navi a Venezia. Qualcuno si opporrà a questa nuova élite, i figli sazi di Steve Jobs?
alberi da frutta trapiantati. Ma forse sarà la sua tomba: Apple non ha "the new thing", impiega più avvocati che creativi, è troppo delocalizzata in Cina, lotta con il fisco. Non è più quella comunità di persone "affamate, folli", come le aveva definite Jobs. La mela che addentarono, la stanno digerendo.
Silicon Valley è oggi la più grande concentrazione di miliardari del pianeta. Google, Facebook, Apple detengono il maggiore e più antipatico dei poteri: sono in grado di orientare la morale pubblica. Nella valle lavorano centomila techies, con le loro scuole private, le loro biciclette, il loro culto della salute. Si spostano su enormi bus che per le strade di San Francisco fanno l'effetto sgradevole delle Grandi Navi a Venezia. Qualcuno si opporrà a questa nuova élite, i figli sazi di Steve Jobs?
http://www.repubblica.it/tecnologia/prodotti/2016/03/27/news/apple_40_anni_dopo_la_mela_avvelenata-136390062/