ANGELO GIUBILEO, IL FANCIULLO DI ERACLITO



Da: Angelo Giubileo <angelogiubileo6@gmail.com>
 
 

Il fanciullo di Eraclito

Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti reciprocamente giustizia e ammenda per l'ingiustizia, secondo l'ordine del tempo. E' questa la traduzione heideggeriana del distico di Anassimandro che è il principio del pensiero filosofico dei Greci.

Prima di addentrarci nel merito della sintesi, occorre però riflettere sul fatto che questa sintesi stessa proviene da Anassimandro, e cioè in genere humani et in specie philosophi - uomo e, secondo la tradizione che da egli avrebbe avuto inizio, filosofo; così che non possiamo evitare di assegnare ad Anassimandro stesso un ruolo e una funzione di "osservatore". Alla maniera di Gilgamesh, il cui nome, secondo Giorgio de Santillana, è meglio interpretabile con l'espressione "colui che vide tutto". E cioè - a entrambi gli stessi occhi di Gilgamesh, quello dei sensi e quello della mente - sia il visibile che l'invisibile. 

Il più celebre paradosso di Zenone, noto come il paradosso di Achille e la tartaruga, afferma che Achille piè veloce non raggiungerà mai la tartaruga, dato che, rispetto alla linea di partenza, la tartaruga stessa si trova in una posizione più avanzata rispetto a quella di Achille. In vero, questo paradossale giudizio sintetico trova giustificazione mediante la suddivisione dello spazio in <termini> matematici (numeri equivalenti ad assiomi, postulati o dogmi) e quindi attraverso la divisione dello spazio della via percorsa dai due enti ad infinitum. Altro elemento del paradosso, talvolta trascurato, ma viceversa fondamentale, è la presupposizione (equivalente a un assioma, postulato o dogma) di colui che osserva l'intero quadro della situazione sia statica che potenzialmente dinamica. Vale a dire è l'osservatore – ente o parte esterna alla rappresentazione della <via> ma compresa nell'essere o intero della rappresentazione -, che stabilisce il punto in cui collocare inizialmente i due ag-enti ed è sempre egli stesso che stabilisce l'inizio della via da percorrere da parte dei due altri enti medesimi, che in quanto tali possiamo dire "iniziati".

Ciò detto, la questione è se sia possibile qualcosa prima ancora di quest'<inizio>? Un prima riferito sia alla dimensione spaziale che temporale dell'essere - tutto intero che comprende ogni singolo ente -, che, direbbe Parmenide: è?

Nel 1931, il matematico austriaco Kurt Godel ha dimostrato con i suoi due teoremi dell'indecidibilità il fallimento del tentativo di Hilbert di approdare a una teoria matematica dell'intero: per esprimere un giudizio completo e definitivo su un sistema come quello della matematica occorrerebbe ciò che s'intende con il termine "metamatematica". Un altro sistema, sovraordinato, come quello della <metafisica>, capace di fornire una giustificazione al sistema della fisica. Il tentativo di Hilbert ripete, con analogo e inevitabile fallimento, il tentativo che Aristotele narra nel De coelo di abbandonare la via della sapienza antica per dedicarsi alla via della conoscenza scientifica (cfr. Giorgio de Santillana, Le origini del pensiero scientifico). Dal punto di vista dell'osservatore, l'edificio di Pitagora e in fine di Descartes giacque e non può che giacere definitivamente in rovina.

Il sistema della fisica ab imis species humani, secondo il punto di vista <umano>, richiede necessariamente un osservatore-altro, che è più facile immaginare posto al di sopra di ognuno di noi. In breve, una sorta di dio della politica o religione tradizionale, che ha però il difetto di nutrire un altro paradosso: che bisogno o necessità avrebbe avuto questo o quel dio, eterno e immortale, di creare un universo fisico mortale e soprattutto dare <inizio> a un qualcosa che, se iniziato, è da ritenersi altro da sé? Cosa sarebbe <l'inizio> di questo dio? Heidegger direbbe che dovrebbe trattarsi piuttosto di l'inizio che è l'inizio che è.

Anche nell'attualità, fisici come Rovelli sostengono che il tempo non esiste e che saremmo noi umani a farlo esistere, prova ne è che il tempo in montagna scorre più veloce che in pianura. In breve, come detto da Einstein, il tempo in qualche modo sarebbe relativo. Ma, rispetto a cosa? In proposito, non c'è dubbio, possiamo anche dire, rispetto a un "osservatore" che vive in qualche modo il tempo medesimo. Ma, cosa intendiamo esattamente o necessariamente con il termine o la definizione di "tempo"?

Rovelli non intende certo il tempo di Anassimandro e dell'intera Tradizione degli antichi sapienti, sophoi, antecedente alla nuova tradizione, purtroppo accademica, dei philosophoi; che, si dice, inaugurata da Platone. Allo stesso modo, il tempo di un altro fisico dell'attualità, Tonelli, non è ugualmente il tempo di Anassimandro: nel suo ultimo libro, intitolato per l'appunto Tempo, egli sottintende per l'appunto "il sogno di uccidere Chronos".

E allora di quale Tempo necessiterebbe invece dire? Platone stesso chiamava il tempo "Il Medesimo" e anche, nel Timeo, "l'immagine mobile dell'eternità". Il medesimo Tempo - sia eterno e immortale che mortale - con cui gli Antichi avevano imparato a dar nome a l'essere - che tutto intero e in ogni sua parte - è e non è possibile che non sia (e) il non essere non è e non è possibile che sia (Parmenide).

Nomina nuda tenemus … Ma non è stato sempre così, c'è stato un tempo in cui i nomi segnavano qualcosa di visibile a entrambi gli occhi, della mente e dei sensi. Oggi invece questi stessi nomi rappresentano solo pietre miliari poste su vie o sentieri che Heidegger dice interrotti, spesso perduti. Ma, talvolta, solo smarriti e di cui è necessario andare alla ricerca. Anticamente, i nomi erano intesi come stazioni - o dimore heideggeriane - poste lungo i viaggi o sentieri degli dei. Nomi densi di significato, termini visibili che contrassegnavano l'andamento del giorno e della notte. E allora cosa significava anticamente il nomen omen <tempo>? E, aggiungerei, cosa intende esattamente il professor Norman nel film "Lucy" quando esclama in definitiva che "il tempo è l'unità", subito dopo aver chiesto a se stesso "se l'uomo non è l'unità di misura e il mondo non è governato dalle leggi della matematica, che cosa governa tutto"?

In scia alla riflessione dello stesso Guido Tonelli (Ibidem), che qui immediatamente riproduco, Il tempo è l'unità nel senso del dio uno e trino, via verità e vita di un'unica tradizione che dalla più remota Antichità giunge fino all'attualità: Chronos è il tempo che scorre, quello che scandisce, con Anassimandro, l'inevitabile ritorno all'assoluto con la morte: destino ultimo di tutti gli esseri che dall'infinito si sono distaccati costruendosi come entità individuali e differenziate. E' anche il nostro tempo di vita, il tempo degli umani, quello in cui si sviluppa la storia. Che, come accaduto in un passato pre-umano, non sappiamo se, in futuro, riservi un posto a ciò che oggi chiamiamo <umano> e domani potrebbe dirsi post-umano. Aion è il tempo mistico o metafisico, che si può tradurre con eternità o, semplicemente, vita; è il tempo senza tempo, l'istante perfetto congelato per sempre, lo spirito vitale personificato nel fanciullo che gioca a dadi di Eraclito. Kairos è per i Sofisti il momento opportuno, un istante interstiziale tra Chronos e Aion, all'insegna di Hermes. Attimo senza spessore, che fugge rapido come il dio alato.

Se - secondo l'opinione sia della più antica Tradizione che della moderna Accademia - il vecchio e il nuovo mondo (cfr. G. de Santillana, Fato antico e fato moderno) hanno avuto rispettivamente fine e inizio con Platone, non resta allora niente di meglio che dire che il tempo, agli occhi della mente e dei sensi, è: Il Medesimo, immagine mobile dell'eternità.

Angelo Giubileo