Ugo Nespolo e l'estetica postfuturista
by ART TRIBUNE
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Ben prima della dedicarti alla dispersione delle immagini, con le tue opere ti sei concentrato sulla filosofia e il pensiero critico – penso a opere come le Tavole di Pastore del 1968, ma anche al tuo "profilo" da giovane pensatore individuato da Del Guercio e Trini. Inizierei il nostro dialogo con questi primi aspetti.
Volentieri. Ho sempre avuto questa idea – in parte riflettendo su alcuni autori dell'avanguardia storica – che in quel periodo vi fosse una carenza di teorizzazione. Ossia che l'arte dalla seconda metà del Novecento stesse andando avanti basandosi sull'istinto dell'informale, acutizzandone la portata. Mi sembrava che tutti si sentissero dei "grandi creatori", che volevano a tutti i costi difendere idee quali l'arte come Zen, l'arte come gesto, la ripresa dell'arte post-pollockiana ecc.
La mia impressione invece era diversa: mi sono trovato più volte a pensare che lo sviluppo dell'arte, dalle avanguardie in avanti, abbia risentito di grosse teorizzazioni. Basta pensare al Futurismo che, potremmo dire, nasce prima come teoria che non come pratica artistica. A me interessava capire cosa stava sotto al fare arte. Probabilmente mi hanno influenzato molto le mie frequentazioni di quel periodo con artisti e intellettuali come Enrico Baj ed Edoardo Sanguineti, con i quali ho intrattenuto importanti legami di amicizia nel corso degli anni. Mi interessavo molto alla filosofia e alla critica. Spesso andavo ad ascoltare le lezioni di Pareyson e di Venturi all'università. Inizialmente avevo anche scritto qualche testo critico sulle opere di un mio compagno di accademia… un testo che era piaciuto molto ad Alighiero Boetti. Avevo fame di teoria, perché mi sembrava che questa mancasse e che, allo stesso tempo, fosse importante per l'arte. Cercavo di affrontare questa mia voracità confrontandomi anche con alcuni critici, tra i quali Renato Barilli, del quale apprezzo soprattutto l'impostazione didattica.
Possiamo dire allora che questa riflessione sugli sviluppi dell'arte e, parallelamente, su quelli delle teorie sia stata determinante per l'elaborazione del tuo primo corpus di opere degli Anni Sessanta: Molotov, Triperuno, i Piccoli legni, La macchina dell'aria. Opere concettuali che manifestano il tuo disinteresse di allora per la dispersione delle immagini, alle quali ti sei dedicato subito dopo, ma anche la tua vicinanza all'Arte Povera…
Assolutamente. Concordo con la tua sintesi sebbene, vorrei precisare, sviluppavo le mie ricerche in parallelo all'Arte Povera: ero molto interessato ai lavori di Paolini e Anselmo. Hai ragione rispetto alla concettualità: è proprio di quegli anni la mia mostra alla Galleria Schwarz di Milano intitolata Verità e menzogna, una alternativa logica.
Mi interessa una tua opera di allora, Molotov. Una installazione che riesce a tradurre, in qualche modo, il clima di contestazione che caratterizza quegli anni e che si fa tutt'uno con gli sviluppi stessi dell'arte.
Sì, è così. Ma anche in questo caso, c'era dietro una riflessione. Andavo con un mio caro amico, Renato Ferraro, a vedere cosa stava capitando a Parigi, alla Sorbona. Eravamo convinti che l'arte dovesse avere un rapporto più stretto con quello che stava capitando. Mi sembrava che l'arte fosse diventata quasi una contraddizione della vita reale e questo mi spingeva a cercarne nuovi rapporti con essa. Molotov nasce da questi pensieri. L'opera era stata scelta per essere esposta negli spazi del Deposito di Sperone e aveva a che fare con questa esigenza, velleitaria, di riportare l'arte nel contesto della vita sociale.
Negli stessi anni, insieme all'orientamento concettualista, coltivi anche il tuo interesse per il cinema, che si traduce immediatamente nelle tue prime produzioni sperimentali. Penso ai film La galante avventura del cavaliere dal lieto volto e a Buongiorno Michelangelo.
Nei primi lavori cinematografici, come in quelle opere che, come dici tu, sono di taglio concettuale, miravo in modi diversi a riportare in primo piano il ruolo della manualità. Per quanto riguarda talune opere di quel periodo, ho puntato a seguire il concettualismo ma, lasciami dire, cercando di mettere in risalto anche l'aspetto che potremmo chiamare "del lavoro ben fatto". Volevo dire qualcosa, ma salvando la realizzazione manuale dell'opera. Senza trascurare l'eclettismo.
Mi sembra che, chiamando in causa l'eclettismo e la manualità, tu abbia posto le basi per quello sviluppo della tua ricerca che è sfociata successivamente nella più evidente produzione e dispersione delle immagini, andando in direzione del pop. Cosa ne pensi?
Sì, credo che dovremmo ripensare all'arte anche in questa prospettiva. Non so se il compito dell'arte sia quello di stupire le persone, perlomeno essa potrebbe essere in qualche maniera influente. Credo però che sia stato anche importante un clima di disgregazione dell'idea di gruppo che si è andata affermando proprio negli Anni Sessanta e Settanta.
Voglio dire, forse sono tornato alla manualità e all'eclettismo, anche perché ho voluto manifestare il mio individualismo. Come se ci fosse stato un doppio parallelismo: ero affascinato dalla Pop Art e allo stesso tempo dalla possibilità di affermare in qualche modo la mia individualità. Avevo fatto anche io dei dipinti all'inizio della mia carriera, poi forse sono tornato alla pop in seguito sia perché ero impressionato sia perché volevo conservare questi aspetti di eclettismo e manualità.
Che cosa impressionava del pop in quel periodo?
Beh, lasciami dire che, prima di tutto, la pop aveva impressionato tutti! Compreso me, che dopo i primi viaggi in America ero tornato entusiasta. Mi ricordo di averne parlato con Del Guercio, allora mio professore di storia dell'arte, che mi aveva subito smontato. Alla fine, però, questa fascinazione ha lasciato evidenti segni sul mio lavoro. Se penso alle prime opere concettuali, mi sembra che anche quelle possano mostrare un aspetto di piacevolezza che volevo raggiungere. Erano idee tra le altre. Ma il pop contribuisce a conferire una nuova luce alle cose. Anche in rapporto alla possibilità di vedere il mondo attraverso quella luce.
Dunque, qual è il momento in cui la tua ricerca confluisce nella produzione visiva di immagini e film sperimentali?
Esattamente quello in cui mi metto a combinare le parti dell'opera: a comporle e a scomporle. Sia con le immagini sia con il cinema, mi sono proposto di contraddirmi continuamente: cercavo una scappatoia. Per me era un modo per sfuggire all'arte degli oggetti. Per il cinema però si trattava di entrare in sintonia con le opere dei registi sperimentali americani attivi in quegli stessi anni. Il mio interesse per il cinema nasce comunque anche da una continua riflessione sulle avanguardie storiche, proprio perché ho sempre ritenuto importante misurarmi con il "cinema degli artisti". Si è trattato anche in questi casi di manipolare immagini. E nei miei film ho spesso cercato di ottenere una certa leggerezza, una vena ironica …
Senza metter però da parte la vena critica. Mi sembra infatti che ad accomunare taluni tra i tuoi film ad alcune opere visive – penso a quelle sul rapporto tra lo spettatore, l'opera e il museo – sia proprio questa tua voglia di pungolare attraverso l'opera. Forse questa è anche una cifra del tuo lavoro.
Non sono mai riuscito a farne a meno. Ho questa idea di poter mettere sempre, dove è possibile, un elemento critico. Probabilmente è anche vero che questa sia diventata una cifra del mio lavoro. E il museo l'ho scelto per questo motivo. Per me è uno un contenitore di opere dove però la gente troppo spesso ci entra solo per passeggiare senza davvero interessarsi. Mi piace pensare che qui la critica abbia il suo ruolo centrale: l'opera che scuote i visitatori. E questo fa anche parte del gioco che si può fare con le immagini.
Davide Dal Sasso
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