Riccardo Campa su Aubrey de Grey





Redazione

Fonte  Futuri Magazine   IIF

estratto da 

Aubrey de Grey e l’eterna giovinezza. La medicina rigenerativa come questione politica

 
.....

Una profezia: la fine dell’invecchiamento

Nel 2007, il biogerontologo Aubrey de Grey pubblicò un libro destinato a ricevere grande attenzione dai media: Ending Aging. Il messaggio centrale del libro, scritto a quattro mani con il suo assistente Michael Rae, era insieme una profezia e un programma: riusciremo a sconfiggere l’invecchiamento. Diverse aree di ricerca e metodologie erano poste all’attenzione del lettore per convincerlo che la previsione non era campata in aria, ma dotata di un fondamento scientifico.
Nel campo della biogerontologia un decennio è un’eternità. Molti sono stati gli sviluppi registrati nel frattempo, anche se ancora l’invecchiamento non è stato sconfitto. Pare comunque opportuno tornare sui contenuti di quel libro per almeno due buone ragioni. La prima è che il volume è ora finalmente accessibile in lingua italiana, essendo stato tradotto e pubblicato nel 2016 da D Editore, con titolo La fine dell’invecchiamento. Come la scienza potrà esaudire il sogno dell’eterna giovinezza[1]. La seconda è che il libro di de Grey non affronta la questione della medicina rigenerativa soltanto sotto il profilo tecnico, ma anche sotto il profilo etico-politico. E le questioni etico-politiche sono molte, complesse e ancora tutte aperte. Proprio per questa ragione il biogerontologo inglese ha sviluppato le sue riflessioni in un libro di circa cinquecento pagine.
Se per un cultore di scienze sociali è normale organizzare i propri pensieri in forma di libro, non così è per lo scienziato naturale, il cui tipico formato di pubblicazione è l’articolo su rivista specializzata. Certamente, anche lo scienziato sociale scrive articoli accademici (questo scritto è auto-esemplificativo). E non è certo la prima volta che uno scienziato naturale si impegna nella stesura di un libro di ampio respiro. Tuttavia, per le due categorie di ricercatori, la scelta dei formati avviene in proporzioni inverse e per una ragione ben nota ai sociologi della conoscenza. Lo scienziato naturale può dare per scontata, per non problematica, una massa ingente di studi pubblicati dai colleghi, soprattutto negli anni immediatamente precedenti, e andare subito al punto chiave. Il che si può fare in poche pagine. Proprio per questo motivo, Thomas Kuhn (2009) conclude che la “scienza normale” assomiglia a una soluzione di puzzle. Se non ci si discosta troppo dal “paradigma dominante”, la soluzione è già nelle premesse, ossia nella conoscenza di sfondo non problematica e nelle tecniche di ricerca codificate.
Diversa è la situazione delle scienze sociali, che sono discipline multi-paradigmatiche, ovvero caratterizzate dalla presenza di molte scuole di pensiero in conflitto. A meno che non si pubblichi in una rivista “amica”, dove tutti appartengono per così dire alla stessa confraternita, prima di andare al punto chiave, il ricercatore deve dimostrare almeno di conoscere le tante teorie alternative sulla questione che intende affrontare. Poi le può gettare nel cestino e utilizzare l’approccio della propria scuola, ma non può semplicemente ignorarle. E, così, prima ancora di toccare la questione che gli sta a cuore, ha già riempito parecchie cartelle. Inizia a scrivere un articolo e finisce per scrivere un libro.
De Grey è “costretto” a scrivere un libro perché, da un lato, rompe con il paradigma dominante nel campo della biogerontologia e, dall’altro, si confronta sistematicamente con problemi che di norma rientrano nella filosofia politica o nella bioetica. Utilizzando ancora una volta il vocabolario di Kuhn, possiamo dire che quella di de Grey non è “scienza normale”, è “scienza rivoluzionaria”. Affermare, come lui fa, che l’invecchiamento è una malattia – una malattia che va curata quando inizia a manifestarsi e non quando è troppo tardi per intervenire – significa cambiare i postulati di partenza della biomedicina. Ecco perché de Grey non può più accettare in modo acritico gli studi fatti in precedenza dai colleghi. Oltretutto, tra le soluzioni proposte dal biogerontologo inglese c’è la terapia a base di cellule staminali embrionali e, più in particolare, la cosiddetta clonazione terapeutica. Filoni di ricerca che hanno scatenato reazioni veementi negli ambienti politici e religiosi più conservatori.
Quando ci si mette contro l’establishment accademico e politico, si corre il rischio di rimanere isolati, senza finanziamenti per le proprie ricerche. Diventa così necessario rivolgersi a specialisti al di fuori della propria disciplina, a grandi finanziatori privati e persino alla gente comune, per ottenere un sostegno economico e morale. Questa operazione finisce per trasformare una questione scientifica in una lotta politica. De Grey lo dice a chiare lettere nell’incipit del capitolo undicesimo: «Nel corso della nostra vita perdiamo gradualmente cellule vitali per la nostra salute. Molte terribili malattie legate all’invecchiamento, come il morbo di Parkinson, sono causate da una riduzione nel numero di cellule responsabili di una o più tra le funzioni cruciali dell’organismo. Fortunatamente, le terapie basate sulle cellule staminali ci offrono la possibilità di rimpiazzarle. Eppure, purtroppo, ci sono degli ostacoli che non ci permettono ancora di raggiungere i nostri obiettivi. Tra questi vi è la politica» (p. 412). Un termine, “politica”, che nel libro di de Grey compare circa cinquanta volte.
Gli scopi di questo articolo sono fondamentalmente due. Il primo è richiamare l’attenzione sull’idea dell’invecchiamento come malattia endemica e sulla stem cell therapy come principale rimedio contro questo flagello. Il secondo è elevare il discorso di de Grey a caso esemplare, per mostrare come ogni programma biomedico contenga, implicitamente o esplicitamente, anche un programma biopolitico. Si tratta di una questione già esplorata a fondo da Michel Foucault (1977), ma misconosciuta a chi ritiene vi sia una netta cesura tra le scienze naturali e le scienze sociali.

Staminali adulte o staminali embrionali?

Le cellule staminali possono essere distinte in “staminali adulte” e “staminali embrionali”. Si tratta in entrambi i casi di cellule non specializzate che possono, perciò, assumere forme e funzioni diverse. Le prime sono reperite tra cellule specializzate di un tessuto specifico, mentre le seconde sono estratte dalle cellule interne di una blastocisti. Le prime hanno la caratteristica della multipotenza, possono cioè svilupparsi in cellule diverse, ma non in tutte. Le seconde hanno invece la caratteristica della pluripotenza, perché possono generare pressoché tutti i tipi di cellula, per esempio delle ossa, del cuore, del cervello, del fegato, ecc. (Turksen 2012).
Scienziati, politici e cittadini comuni si sono divisi sulla questione secondo la tradizionale spaccatura che vede un fronte pro life (per lo più cattolici ed evangelici) opporsi a un fronte pro choice (per lo più non credenti e diversamente credenti). I primi sostengono la liceità della ricerca sulle sole staminali adulte, perché ritengono immorale creare e distruggere embrioni umani per scopi scientifici, avendo postulato che la vita comincia dal concepimento e che già all’embrione deve essere riconosciuto lo status di “persona”. I secondi respingono questa narrativa, negano la personalità dell’embrione e sostengono l’eticità della ricerca sulle staminali embrionali, perché in prospettiva più promettente.
Aubrey de Grey appartiene decisamente al secondo gruppo. Esprime un giudizio piuttosto caustico sul programma di ricerca incentrato sulle staminali adulte. Afferma che «alcuni gruppi di potere apertamente conservatori, continuano ad opporsi all’uso delle ECS [Embryonic Stem Cells]. Ma per fortuna, le loro ripetute dichiarazioni, secondo cui le cellule staminali adulte possono curare con efficienza “settanta malattie” sono state giustamente definite “palesemente false”, così come gli articoli che le accompagnano. Il New England Journal of Medicine, solitamente diplomatico, ha definito queste dichiarazioni come “semplici idiozie”» (p. 426). Il biogerontologo inglese spezza invece una lancia a favore delle cellule staminali embrionali, giacché esse sole «hanno il potenziale necessario per ringiovanire gli organismi anziani, sia in termini di varietà delle cellule richieste, sia nei termini di quantità delle cellule necessarie per creare ampi innesti di tessuto, e in alcuni casi perfino interi organi. E ne avremo bisogno» (ibid.).
Le ragioni per cui de Grey ripone speranze in questo programma scientifico sono basate sulla teoria biologica, che indica nelle embrionali cellule capaci di generare qualsiasi tessuto, e sui risultati ottenuti nelle sperimentazioni animali. Ricorda, infatti, che le cellule staminali estratte dall’embrione si sono rivelate in grado di curare diverse specie da terribili malattie di cui soffrono anche gli esseri umani, tra cui «diabete giovanile, danni alla spina dorsale, sclerosi multipla, paralisi cerebrale, ictus, morbo di Parkinson, una forma di paralisi causata da un virus, e, recentemente, la degenerazione maculare (quella forma di cecità causata della perdita di cellule fotosensibili nel centro della retina)» (p. 425). La questione davvero centrale, nella narrazione del biogerontologo inglese, è proprio il morbo di Parkinson. Riconduce questa malattia alla perdita di quei neuroni situati nel cervello che producono dopamina, messaggero chimico che ha un’importante funzione nel controllo dei muscoli. Si tratta di una patologia particolarmente insidiosa, perché può essere diagnosticata solo quando la metà dei neuroni è già andata persa e il controllo muscolare è «compromesso al punto tale che alcune parti dell’organismo iniziano a scuotersi ritmicamente ed involontariamente, mentre il volto si trasforma in una maschera impassibile dall’espressione vuota, o addirittura ostile» (p. 427).
Si pensa sempre che le malattie riguardino gli altri. De Grey ci ricorda, invece, che tutti noi perdiamo ogni giorno i neuroni predisposti alla produzione di dopamina. La sola differenza è che le persone colpite dal morbo di Parkinson raggiungono prima una soglia critica, perché li perdono più rapidamente. Il ricercatore conclude che, «senza la possibilità di rimpiazzare queste cellule, tutti noi svilupperemo questa malattia (se qualcos’altro non ci uccide prima)» (ibid.).
A rallentare il cammino dell’uomo verso l’eterna giovinezza e la vita illimitata non è un’impossibilità naturale o una decisione divina, ma il fuoco di sbarramento delle forze politiche conservatrici. De Grey rimarca, infatti, che gli amministratori scientifici del National Institute of Health (NIH), uno dei più importanti centri di ricerca americani, sarebbero felici di erogare fondi per la ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica, «se solo le loro mani non fossero legate dai lacci della politica» (p. 459). Lo scienziato di Cambridge allude al fatto che a ostacolare per anni la ricerca sulle cellule staminali è stata la decisione presa dal presidente George W. Bush, il 9 agosto del 2001, «di ridurre i fondi governativi destinati ad essa, consentendo di proseguire i lavori solamente sugli embrioni creati prima della mattina in cui venne fatto l’annuncio» (p. 442). La politica dell’amministrazione Bush ha di fatto ribaltato la precedente decisione di Bill Clinton di erogare al NIH i fondi necessari alla ricerca sulle staminali embrionali. Decisione che, tra l’altro, non era stata ancora messa in pratica. Per quanto riguarda il reperimento del materiale biologico, l’idea originaria dell’amministrazione democratica era di destinare alla ricerca gli embrioni in eccesso provenienti dalle cliniche in cui si effettua la fecondazione in vitro. Il biogerontologo inglese si lamenta soprattutto per il fatto che la decisione di Bush non era fondata su considerazioni scientifiche, ma piuttosto su «opportunità politiche». Si trattava fondamentalmente di compiacere l’elettorato e le tante organizzazioni cristiane che lo avevano portato alla Casa Bianca.
Curiosamente, de Grey non nomina mai, in tutto il suo libro, i “cristiani” o i “cattolici”. Parla sempre, genericamente, di conservatori, sebbene sia noto che sono soprattutto gli ambienti religiosi a mal digerire gli esperimenti sugli embrioni umani e, più in generale, la cosiddetta “manipolazione del vivente”. Evidentemente, l’autore di Ending Aging è pronto a impegnarsi in una lotta politica, ma non a scatenare una guerra di religione. Non a caso, quando alle conferenze gli viene chiesto se l’eterna giovinezza promessa dalla scienza non sia in aperto contrasto con la vita eterna promessa dalle religioni, risponde sempre negativamente. In effetti, l’una non contraddice l’altra. Il ringiovanimento periodico dell’organismo non garantisce, infatti, l’immortalità. E, se vi fosse vita dopo la morte, ne potrebbe in linea di principio beneficiare anche chi prima è ricorso alle terapie anti-invecchiamento. Sebbene il presidente americano non abbia vietato del tutto la ricerca sulle staminali embrionali, essendosi limitato a tagliare i fondi federali a essa destinati, secondo de Grey, è responsabile del declino generale della medicina rigenerativa. La sua decisione è, infatti, suonata come una campana a morto per tutto il settore. Il problema è che, non potendo essere create nuove linee di embrioni, si doveva fare riferimento alle sole ventuno esistenti, le quali non potevano evidentemente rappresentare la diversità genetica dell’umanità. In altre parole, diventava difficile verificare se una determinata scoperta era «una particolarità di quel determinato embrione o una caratteristica da attribuire ad un intero gruppo etnico». Per ottenere risultati attendibili, spiega lo scienziato inglese, è necessario lavorare con un ordine di grandezza di diverse centinaia di linee di embrioni. Oltretutto, a causa della loro età, gli embrioni disponibili stavano «accumulando mutazioni che possono alterare i risultati» (p. 443).
Ne è tutto. Questo tipo di decisioni finisce per avere conseguenze anche al di fuori del segmento della ricerca che intende colpire. Non solo gli scienziati impegnati in questo tipo di ricerche, ma anche gli studenti che devono scegliere i corsi da frequentare all’università, i loro professori, gli imprenditori che devono allocare i capitali, e persino gli scienziati impegnati in aree di ricerca attigue ne subiscono le conseguenze. Alcuni laboratori si sono infatti visti rifiutare il finanziamento pubblico, solo perché le attrezzature che intendevano acquistare avrebbero potuto in linea teorica essere usate per lavorare sulle staminali embrionali. Perciò, de Grey conclude che «la politica si insinua ben oltre i laboratori in cui si lavora sugli embrioni» (p. 445).

,,,,,,,,,,,,ARTICOLO COMPLETO  FUTURI MAGAZINE