Futurismo: Apollinaire ovvero il destino delle macchine
Apollinaire, intuendone lo straordinario futuro, le definì le figlie senza madre dell'uomo. Nulla di più vero e di azzeccato nella visione di chi, rampollo egli stesso della verve internazionalista dell'ansia futurista e dello slancio verso i nuovi orizzonti della civiltà del movimento, ne preconizzò le conquiste al pari di un altro suo conterraneo, quel Jules Verne, di cui non si manca ancora oggi di sottolinearne la profezia. Le macchine sono le macchine. Nell'immaginario collettivo e nella mente di chi audacemente le sogna come stampella energica della vecchiaia dell'uomo, rappresentano la giovinezza, l'ebbrezza della vitalità nuova che emerge dall'oscura caverna dell'intelligenza sopita. Eccola, l'intelligenza, eccola l'intelligenza artificiale con le sue mille forme, nelle sue mille invenzioni, nelle sue mille sfide. Marinetti fu tra i primi a lanciarne il messaggio: le macchine come riscatto dell'umanità, come strumenti di conoscenza del cosmo, come testimoni di progresso. Infuria oggi il dibattito sui limiti dello sviluppo e dello stesso progresso, inficiato da un'ipoteca faustiana a dir poco inquietante. Il rischi è, secondo un fortunato libro, The Secon Machine Age (Erik Brynjolfsson e Andrew MacAfee) prospetta con sgomento il pericolo che, con la complicità delle macchine, si generi e si avalli il crescente trend di povertà globale, con esiti ancor più disastrosi di quelli che creò la rivoluzione industriale. Una parte di vero c'è in questo timore. Ma è bensì vero che l'introduzione di tecnologie basate sull'intelligenza artificiale può donare all'uomo quella luce che Prometeo riuscì a portare nelle tenebre dell'ignoranza in epoca lontana, assai lontana. Forse è questo il senso autentico del messaggio delle macchine, nella misura in cui esse non siano strumento di perdizione, ma di salvezza.
Casalino Pierluigi, 14.12.2014